SPECIALE VENEZIA/ La Casa Tre Oci

di - 7 Maggio 2015
V-A-C Foundation, acronimo che sta per Victoria the Art of being Contemporary, è una giovane fondazione no profit per la diffusione della cultura e dell’arte contemporanea russa, che si sta facendo largo nel già (ma mai abbastanza!) affollato panorama veneziano. Sarà che Venezia un poco gli ricorda San Pietroburgo, sarà che chiunque si occupi di arte contemporanea sogna il suo posto in laguna, fatto sta che molto presto la città potrà annoverare un nuovo spazio espositivo (attualmente in fase di restauro) tutto a uso e consumo della V-A-C. Alle Zattere. Sì, proprio davanti al Mulino Stucky, e vicino al chioschetto degli spritz.
Per ora, accontentiamoci di vedere la mostra alla Casa dei Tre Oci, struttura per lo più consacrata alla fotografia. V-A-C e l’attuale assetto dei Tre Oci – storica abitazione disegnata dal pittore simbolista Mario De Maria, alias Marius Pictor – sono praticamente coetanei, nati entrambi nel 2009. E collaborano sin quasi dall’inizio (ricordate “Modernikon”?) affiancando artisti russi e artisti occidentali. Per la 56esima Biennale di Venezia è di scena “Future Histoires”, a cura di Magnus af Petersens, che presenta il lavoro di due artisti, Mark Dion e Arseny Zhilyaev, i quali immagineranno ciascuno un museo.

Dion presenta “The Wonder Workshop”, progetto in cui una squadra di artigiani scolpisce figure di uccelli, tratte da alcune stampe del XVII secolo. Queste sono l’ultimo ritratto dei volatili sudamericani, scoperti dagli esploratori secenteschi, e poi uccisi, impagliati e venduti a qualche collezionista di Harlem o di Amsterdam. Chi conosce già il lavoro di Dion, sa che si basa sugli strumenti di catalogazione di campioni o di manufatti, di esemplari impagliati, di reperti tipici del museo, del gabinetto scientifico o di curiosità e di quella particolare tassonomia (di cui lui è stato uno dei primi artefici) che va sotto il  nome di “archeologia del presente”. Strumenti poi applicati in maniera del tutto personale e estemporanea, come nel caso della raccolta e schedatura di tutte le creature marine vendute per i mercati di Chinatown (“The Department of Marine Animal Identification of the City of New York – Chinatown Division”, 1992).
I tradizionali meccanismi museografici sono così mimati e minati allo stesso tempo, mettendo in discussione quel mezzo di trasmissione e appropriazione della cultura, così congeniale alla nostra cultura, che è il museo.
Oltre a continuare nel solco della sua poetica classica, Dion finisce qui per svolgere una riflessione amara sugli effetti nocivi che l’uomo ha sulla natura. Soprattutto nel contesto dell’espansionismo colonialista, di cui i grandi viaggi di esplorazione scientifica erano figli. (Tra parentesi, se tra un padiglione nascosto e un vernissage avete tempo, vi consiglio una visita al Fontego dei Turchi, sede del fascinoso Museo di Storia Naturale, dove un’installazione di Dion si confonderebbe benissimo con le collezioni).

Secondo episodio, sempre di sapore museale, è “Cradle of Humanity” dell’artista russo Arseny Zhilyaev, inventore di musei immaginari in futuri distopici e alternativi, come il Museo della Cultura Proletaria, oppure il Museo della Storia Russa M.I.R.
Questa volta, è pensato un futuro possibile (quanto possibile?) in cui un’umanità superstite è fuggita nello spazio, e ha costruito sulla Terra un museo sulle origini e sulla storia dell’umanità, che fornisce anche servizi di clonazione dei propri antenati.
Non interessa tanto il fatto se si tratti di progresso o degenerazione, quanto il ruolo del museo-istituzione per l’essere umano, ai fini del trattamento della cultura, della diffusione di una visione storica e politica del passato apparentemente oggettiva. In questo caso, poi, il tutto sembra insaporirsi delle bizzarre tesi del filosofo Nikolai Fyodorovich Fyodorov, utopisticamente proiettate verso l’evoluzione di un’umanità immortale, clonabile, transumanista.
E proprio nell’anno di tutti i futuri del mondo, risulta assai calzante questo suggerimento che pare farci Zhilyaev: guardare il presente dal futuro (seppure immaginario) permette di essere più critici, di capire molte più cose. Cose che nel mondo piatto della contemporaneità, piatto perché mancante appunto della dimensione della profondità storica, non riusciamo a valutare correttamente.
Mario Finazzi

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