Bianchi, grigi, ocra e tutte le sfumature del mare
d’inverno. Su carta o su tela. Lastre di zinco o strati di pigmento, con tracce
dei processi di trasmutazione. Colore graffiato, raschiato, inciso, da gesti
frenetici ma controllati. Segni corposamente sensuali o esili al limite della
dissolvenza che creano figure in perenne movimento. Questo, l’impatto visivo
sensoriale con l’opera di
Beatrice Caracciolo (Napoli, 1955; vive a Parigi) in
mostra negli spazi della cinquecentesca Villa Medici.
Articolata tra la Galleria e l’Atelier del Bosco, la
suggestiva esposizione ripercorre le tappe salienti del lavoro dell’artista,
dagli esordi alla produzione più recente. A cominciare dalla serie di collage
degli anni ’90. Qui l’impeto del groviglio di linee, come per una sorta
d’intimo pudore, è in parte smorzato dall’applicazione di elementi traslucidi.
“
Nel tempo, ho compiuto un processo di sottrazione”,
spiega Caracciolo,
“
ho abbandonato il collage
cercando una linea pura più spoglia ed essenziale”. Ecco allora i celebri
Water
Marks, realizzati
da serigrafie su alluminio e vetro, cui è dedicata un’intera sala. Il gesto
minimale si fa più sicuro, potente e immediato. “
Uso carboncino, grafite e
pastello sulla carta bagnata con un misto di colla e pigmenti; prima che la
superficie si asciughi catturo l’immediatezza per trasformarla in linee fisse”, continua l’artista.
Come nella pittura giapponese, Caracciolo mira alla realizzazione
del vuoto attraverso un sistema di segni che agisce sul riguardante, per
suggestione e non per descrizione, per empatia e non per narrazione.
Le onde dei suoi
Mari, archetipi di un caos primordiale
creatore/distruttore, affiorano nell’inconscio come energia repressa sul punto
di deflagrare. Proprio l’equilibrio fragile, minacciato da frattura (per
definizione di Olivier Berggruen, curatore della mostra) è il
fil rouge che attraversa quest’opera
eclettica e ispirata da fonti diverse. Dai carboncini su carta, con Pulcinella
protagonista, trasposizioni di gouache del
Tiepolo, fino al ciclo
Riots, nell’Atelier esterno, che si
rifà a una foto di
Cartier Bresson sui tumulti a Shanghai nel ‘48. Disegni su carta di forza
dirompente che si srotolano in orizzontale, “
fogli assemblati man mano che
il disegno, prendeva piede premendo per uscire dallo spazio pittorico”.
È influenzato da avvenimenti storici anche il ciclo
Kosova, dove alla maniera di
Twombly (l’artista napoletana ne condivide
poetica e filosofia) il gesto calligrafico s’infiltra nello spazio d’arte dei
graffiti.
Realizzate mentre infuriava la guerra nella ex Jugoslavia anche
alcune sculture in zinco (
Construction,
Bouclier), materiale utilizzato dall’artista come veicolo
poetico di risonanze multiple: senso di protezione, spiritualità (
Ardenne).
Climax della rassegna:
Torrent, un’opera site specific “
pensata
per sfruttare la prospettiva dello scalone monumentale”. Grandi lastre di zinco
dalle luminose tessiture evocano
una corrente in tumulto, metafora dell’incessante fluire d’ogni cosa. Poiché
non vi è nulla di stabile, salvo l’instabilità stessa.