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Coscienze diverse di scultura. Niccolò de Napoli e Michele Tiberio a Palazzo Branciforte

di - 16 Novembre 2018
Nell’ambito del “Festival delle Letterature Migranti”, si chiude il 17 novembre a Palazzo Branciforte la mostra “Misconception, a way to mis-understand reality”, di Niccolò de Napoli e Michele Tiberio, progetto collaterale di Manifesta 12 curato da Agata Polizzi e Lorenzo Madaro.
Se vogliamo contestualizzare la mostra, dobbiamo partire da un fatto recente che ha ricomposto l’esposizione. Domenica, 12 novembre, nella sala che ospita le opere dei due giovani artisti, è stata inaugurata una mostra incentrata sul Kouros di Lentini, una statua greca raffigurante un giovane, una forma d’arte funeraria molto diffusa nel periodo arcaico, tra il VII e il V secolo a. C. Ciò ha praticamente reiterato la pratica palermitana di inserire mostre nelle mostre come si era già verificato a Palazzo Riso in occasione dell’esposizione delle opere della Scuola di Palermo. Eppure, questa incursione, nonostante la vistosa presenza della statua antica, di marmo bianco delle Cicladi, imponente, ben distanziata dalle vetrine di reperti archeologici, anziché indebolire sembra corroborare il significato della mostra di de Napoli e Tiberio. Considerando la cultura figurativa della Grecia arcaica quale matrice dell’Arte occidentale, le opere contemporanee accendono la riflessione sulla tradizione culturale e sul pregiudizio che essa reca quando si chiama in causa per la distinzione tra il noi e l’altro.
Di Napoli e Tiberio, pertanto, sono scultori che potrebbero tranquillamente sfruttare bellamente un messaggio di continuità lanciato dalla statuaria arcaica celebrando in un sol colpo un legame nobile con l’antico, e un comandamento che, dall’abisso del tempo, si riverbera nelle loro sculture. Nient’affatto, se è vero, come diceva lo psicanalista Giovanni Jervis in un suo memorabile saggio degli anni Settanta che: “ogni riflessione su noi stessi, è riflessione non già nell’attimo presente, ma subito verso il tempo trascorso”, è anche vero che il tempo trascorso è oggi condensabile in una banca dati che accumula in uno spazio virtuale il trascorrere del tempo, uno spazio cioè capace di conservare non solo ciò che è funzionale alla memoria, ma anche fallimenti e banali osservazioni, sfoghi e menzogne destinate all’oblio.
Questo è sostanzialmente il significato di uno dei pezzi forti della mostra, l’opera di Michele Tiberio Me. Si tratta di un libro che raccoglie l’identità digitale dell’artista degli ultimi dieci anni una quantità di dati che sfuggono persino al ricordo dell’artista. Il volume nero di millecinquecento e una pagina, si pone al centro di questa grande sala delle scuderie di Palazzo Branciforte esattamente all’opposto, e in asse, con il Kouros, ossia l’immagine di quello che Jean-Pierre Vernant definiva il “bel morto”.
In un rimando pirandelliano ai ruoli sociali, il gioco sull’identità che s’estingue biologicamente ma resta mnemonicamente entra ed esce dalle tracce lasciate dal mondo antico per insinuarsi nelle opere esposte da Michele Tiberio nelle bacheche del museo archeologico dal titolo Future as an old reflection of us. Sono dei piccoli tripodi argentei, specchi che riflettono, deformandolo, il passato, che restituiscono di esso una “imago” labile e beffarda. La trappola catottica è lo strumento di certificazione dell’esistenza quasi come i documenti prodotti da anagrafi e dagli uffici dove la burocrazia ci iscrive nella vita civile. le fotografie di Tiberio inquadrano questi luoghi, resi abbacinanti dalla stampa mostrandoli come astrazioni del potere nel ciclo Luogo di Nascita.
Che cosa accade, invece, quando questa iscrizione è evasa, fuggita come nel caso delle popolazioni nomadi? Ora l’argomento della mostra si complica, ma rilegge il luogo che la ospita, un museo archeologico, dove se si è soliti ritrovare le radici culturali nel passato in modo tale che, nel presente, possano costituire un valido appiglio. La concezione di sé diventa in ciò problematica. Il problema principale si presenta nel momento in cui l’investimento su quest’appiglio incide sulla posizione di un individuo in un contesto sociale e in che modo dà una forma della sua abitazione, invero dà forma al suo stare. Per questo la struttura sottile di Niccolò de Napoli Untitled pietra rosa allude sia alla dimora, coprendo con un intreccio d’archi una resezione di spazio, sia alla tensione tra individuo e corpo sociale simulato dal contrasto tra canna flessibile e zavorra lapidea. Di Napoli muove dall’attività arcaica del fare scultura e sembra, infatti, concentrato sul destino plastico della materia scelta in natura offrendogli una promessa di sviluppo nello spazio.
De Napoli parte, così, dalla lavorazione dei metalli che lui mutua simbolicamente dall’artigianato Rom. La metallurgia, nella sua qualificazione glittica e in genere nell’oreficeria, racconta nella sua installazione intitolata Ricognizione l’abilità artigianale quale dato distintivo di un popolo, presentandola in un certo senso come paradigma della scultura. De Napoli celebra la manipolazione della materia anche nel video undici mila circa. Lo usa come metafora della conoscenza remota alludendo simbolicamente, indicando la profondità delle Fosse delle Marianne, al punto più vicino al cuore del pianeta, ma anche a un luogo inaccessibile. Ora, se escludiamo ogni presupposto socio-antropologico, che s’ebbene allinei la mostra alle richieste di Manifesta non riesce tuttavia a chiarire i linguaggi, possiamo trovare due diverse coscienze della scultura: in de Napoli la tensione data da un moto latente che sospende l’oggetto nello spazio, mentre in Tiberio il gesto perentorio sulla materia manipolata, sia esso di pura manipolazione o di protesta, crea una forma di memoria.
Per Niccolò de Napoli, per esempio, è il tornello a designare l’importanza dell’accesso, dell’ingresso selettivo nel novero dei diritti civili nella scultura Untitled, 2018 mentre per Tiberio è l’accumulo di ossido su due coni di rame a definire la personalità che serve a distruggere la persona, intesa in termini latini, quale maschera sociale come si nota nell’istallazione delle due sculture It is not flesh e Only time makes me invisible. Il gesto di bruciare il passaporto o di infilzarlo su una guglia di queste sculture, attiva, appunto con una protesta, il fatto plastico. Nelle sculture notiamo, di fatto, due assetti diversi che corrispondono, in teoria, a due diversi approcci: più algido e spazialmente risolto nelle opere di Niccolò de Napoli, più caldo e introspettivo in quelle di Michele Tiberio. (Marcello Carriero)

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