L’opera d’arte non ha più un suo fondamento, come quando l’artista doveva in qualche modo legarsi. Quando chi creava trovava corrispondenza, in una sorta d’identità immediata, tra il reale (cioè quello che si vedeva), l’irreale (ciò a cui si poteva credere) e le concezioni in merito al proprio mondo (quelle che venivano legittimate come codici). In quell’unità, insomma, basata sull’insondabile, dove -in una sorta di anticamera della soggettività- l’artista, grazie alla rappresentazione del proprio contenuto, poteva contare su uno spettatore che ricercava in essa, per immediatezza, la verità più alta. Quella che per usura, oggi, è stata archiviata e poi già dimenticata come il
fattor divino.
La verità suprema, quella assoluta dell’opera d’arte è, ora, una sorta di puro principio concettuale. Un pensiero di tipo creativo e formale che in quest’ultima inculca un’ostentata potenza, una forza che scavalca persino la tecnica, indipendentemente da ogni contenuto manifesto. Questo vuol dire che oggi, nel cosiddetto contemporaneo, per lo spettatore ciò che nell’opera d’arte è essenziale è proprio ciò che, a chi osserva, è invece estraneo, ridotto e privo d’essenza. Mentre quel che di se stesso egli ritrova nel lavoro, cioè il contenuto che vi può scorgere, non gli appare più come una verità. Quel che oggi si trova nell’opera d’arte come
espressione necessaria è qualcosa di cui chi guarda è già palesemente conscio, per proprio conto, come soggetto pensante, e che può quindi credere con legittimità di poter egli stesso portare a esecuzione.
Guardando la leggerezza e la trasparenza, esaltate dal tratto rosso, delle linee a pennarello che segnano i confini dei soggetti di
Roberta Savelli (Giussano, Milano, 1969), sono queste le considerazioni che sembrano emergere, accanto a un possibile giudizio critico sulla sua personale. Mostra, peraltro, allestita con nettezza, candore e semplicità.
Come attraverso un linguaggio, queste serie di dipinti-disegni, nel crearsi una superficie visiva autonoma, trovano la giusta voce, la perfetta intonazione e l’angolatura ideale, per raggiungere una sorta di
condizione d’esistenza. Ecco spiegato il motivo per il quale i lavori sembrano fluttuare sulle pareti, senza stanziarsi mai all’interno di una precisa e pretesa scelta contenutistica. Così, detengono e fanno proprio un primato ancor più profondo, quello sancito dall’unità stilistica.
Per quanto riguarda, infatti, il metodo compositivo, il legame di senso instaurato tra i personaggi dei ritratti, le determinazioni cromatiche e, per finire, le proporzioni prospettiche, Savelli lascia trasparire una capacità di sapere. Di conoscere alla perfezione come dominare la spazialità delle forme e la vertigine dei fondali, entrambe chiuse all’interno di un’
atmosfera in bilico. Un’aria sospesa tra le occhiate e gli sguardi, tra i fiori e i boccioli, tra le scollature e le vertigini, tra la pelle e la sua fragranza, tra i molti passati e nessun futuro.