Con la sua prima
personale italiana,
Yuko Murata (Kanagawa, 1973; vive a Tokyo)
realizza uno spazio di distensione visiva, un luogo di decompressione
pupillare, una Spa dell’immaginazione, un agriturismo del pensiero. Infonde un
senso di benessere questa mostra intitolata
Under the sky e proposta da Peola, dopo una personale della giovane
pittrice da Kasey Caplan e l’invito alla Biennale di Taipei da parte di Dan
Cameron.
La produzione
dell’artista formatasi a Tokyo si compone di piccole tessere che formano un
mosaico in cui
Paul Cézanne e la pittura tradizionale giapponese trovano
un punto d’incontro, con in lontananza un’eco vago ma insinuante di manga.
Equidistante dalle
citazioni postmoderne, dai concettualismi intransigenti e dalle rinascite di un
neobarocco che in alcune occasioni si fonde con l’ultrapop (lontano dalla
narrazione come dall’astrazione), Murata mette in scena un paesaggio distillato
e passato al setaccio da una sensibilità in apparenza delicata e fragile.
Ma
tanto più possente quanto più sorda alle sirene che incessantemente cantano in
questa “
imagocrazia” totale, che chiama l’arte italiana spesso a un confronto
impari: da una parte la profusione d’immagini di consumo, dall’altra una
pittura che, nell’utilizzarle, ne viene assimilata.
Anche il materiale da
costruzione per il mondo di Murata proviene da cartoline, opuscoli turistici,
riviste o enciclopedie illustrate, ma pare estratto come un’essenza: “
Se
vedo un paesaggio di persona non posso dipingerlo”, sostiene l’artista.
Ha bisogno di un filtro, di un autore terzo (un fotografo) e di una macchina
per raffreddare le sensazioni che poi tornano palpabili, in una pittura che non
si nasconde e che si annuncia al di là dell’immagine rappresentata, oltre il
contenuto, come un corpo capace di dare carne all’immagine. La pittura in
quanto tale è in questione.
I dipinti di piccole
dimensioni ritraggono paesaggi innevati e ammassi di rocce grigie levigate. Il
colore è usato il meno possibile. “
Amo il silenzio, il colore è chiassoso”, dice. Cincillà,
scoiattoli volanti e qualche margherita rosa sono i toni eccedenti di discorso
sulla visione che comprende la tradizione pittorica giapponese e la filosofia
zen, dentro una disciplina del visibile che va da
Giorgio Morandi a
Luc Tuymans.
Murata costruisce
quindi un mondo come un giardino zen. Nelle minute icone la pittura risulta
visibile, palpabile e morbida come una sostanza vibrante. Si tratta di una
pittura dolce che sembra voler cogliere “
la verginità del mondo”, come sperava di
fare Cézanne accanendosi sulla Sainte-Victoire.
Attraverso questi
haiku visivi, Murata narra per via indiretta di un’interiorità che costruisce
il proprio mondo attraverso le capacità concrete che la pittura possiede: dar
carne e corpo alle idee e alle emozioni.