La memoria involontaria nei lavori di
Marco Dalbosco (Rovereto, 1958; vive a Bologna) procede per luoghi paralleli. Accoppia due sensazioni che esistono nel corpo a livelli differenti, abbracciate come due lottatori, la sensazione presente e la sensazione passata, traendone qualcosa di irriducibile sia al passato che al presente. Qualcuno di estremamente ricercato la chiamerebbe messa in scena dell’inconsistenza. Qui è meglio chiamarla mera rappresentazione. Più esattamente, si può definire manifestazione esplicita del quotidiano, del reale postumo rispetto alla realtà.
In definitiva, il fatto che le due sensazioni, emerse in chi ben osserva le installazioni di
Incerti arredi, si suddividano in echi di presente e passato, sdoppia il concetto l’ artista vuole sfoggiare. Quel duplice concetto che vorrebbe mettere in mostra l’attacco ribelle al potere e lo sfruttamento capitalista, entrambi causati dalla iper-produzione di prodotti di massa. Che si tratti dunque, per quanto riguarda questa operazione artistica, di un caso di memoria ri-editata o di un gioco semi-serio di origini sabotiste, a oggi ha poca importanza.
Dalbosco non cerca strenuamente l’accoppiamento della sensazione di
déjà-vu e
déjà-veçu. I suoi manifesti, la sua operazione wellsiana e il lavorio certosino della carta rinchiusa in piccoli ambienti, contro l’omologazione multinazionale, risultano tutti passi di un processo oculato. Un passaggio mentale che guida la creazione di una campagna pubblicitaria e la rende un elemento artistico, un additivo esterno. Quest’ultimo, a tratti, può risultare eccessivamente preponderante rispetto alle opere esposte in galleria. Eppure l’abbraccio delle sensazioni, di un certo passato e di un incerto presente, sensazioni limpide che si provano al momento, dibattono e si attanagliano.
Camminando fra i lavori, rimirando a tutto tondo le teche che simulano acquari di ambienti fatti di carta, ricorre uno strano pensiero. Un’idea che si astrae dall’arredamento, dal design, dall’omologazione e perfino dalla frustrazione di mode e tendenze.
Incerti arredi fa appello, infatti, alla nostra memoria collettiva. È per questo che il desiderio di vedere il simulacro della realtà, instillato all’interno di quelle piccole seggiole plissettate, dei letti di qualche centimetro cubi o dei tavoli esagonali, va a scavare, forse quasi senza scalfirla, la superficie dell’arte. Uncinata da dentro. In questa personale, l’arte cerca di farsi manifesta e manifesto, facendosi guidare da una sorta di cieca divulgazione che deve comunque contare sulla risonanza di due effetti visivi. Due sviste, passate e presenti, che necessariamente, per prendere linfa e aggiungere contenuti l’una dall’altra, l’una sull’altra, si devono stringere.
Se dunque la campagna pubblicitaria inserisce in una grafica 1:1 il modellino degli arredi in carta, esposti sotto una teca, bisogna riconoscere che la realtà oscilla. Mettendo in giocosa discussione la pretesa reazionaria di una sperimentazione in miniatura.