Giulio Carlo Argan scriveva che ogni gesto cosciente crea uno spazio. Ed è proprio lo spazio dei gesti il protagonista della mostra al Quarter di Firenze. Nella sala dei video, allineati su lunghi tavoli paralleli, tanti televisori sono a disposizione di chi vuole sedersi, indossare le cuffie e osservare le performance di artisti di diverse generazioni. Un vasto corpus di opere, che tutte insieme vanno a formare un vero e proprio archivio. Video come Terremoto in Palazzo di Joseph Beuys o immagini come quelle dei proiettili sparati sul corpo di Chris Burden ben rappresentano, insieme a tanti altri filmati storici, quella rivoluzione linguistica definita recentemente post-mediale da Rosalind Krauss.
Impossibile non constatare l’efficacia della compresenza delle immagini registrate della performance di Marina Abramovic L’arte deve essere bella e dell’artista in carne ed ossa presente all’opening. L’azione della performer sembra perdurare nel presente poiché tenacemente aggrappata alla fisionomia, al suo corpo.
È il corpo il vettore multiplo di senso in questa rassegna. Sia quando viene trattato come oggetto di esplorazione, sia come strumento dimostrativo. Il corpo non mette in scena la sola esistenza, ma anche il modo con cui questa esistenza si staglia, alterando lo scenario. La passeggiata di Ma Liuming sulla
Nella sezione fotografica ed installativa, dominata dalla famosissima Pietà (2002) della Abramovic, la mostra alterna alti e bassi. Alle forti immagini dell’azione di Marcello Maloberti, della sequenza Seed (2004) di Paolo Canevari o delle curiose foto di navigazione di Lara Favaretto (È uno spettacolo, 2004), si contrappongono pezzi più deboli, come l’installazione di Letizia Cariello o un poco credibile Sislej Xhafa, presente con una foto del 1998 intitolata Cocomero.
I video, allineati come soldati nel grande stanzone del Quarter donano all’intera mostra una certa chiave di lettura, che esula dalla indubbia qualità delle singole opere. Opere che testimoniano di una struttura che ha perso la fragranza della diretta, l’imprevedibilità, per diventare storia, una storia che è pronta a deviare la pura gestualità nella prossemica, la visione verso il commento. Eppure la mostra è un passaggio importante per l’affermazione di un linguaggio, in una dimensione che vede abbattuti i recinti culturali, aperta alle generazioni tenutarie di un vocabolario visuale in cui “video” è un termine ricorrente e centrale. La scritta che campeggia su un muro dello spazio fiorentino: I nipoti dei figli dei fiori, la dice lunga sull’attenzione per gli anni della sperimentazione corporea, gestuale, ma spiega anche la damnatio memoriae dei padri, generazione intermedia che tornò alla dimensione oggettuale (e mercantile) dell’arte.
La necessità di un gesto è molto più diffusa di quanto si creda. Risulta necessaria l’affermazione dell’artista che si emancipa dal prodotto, dall’immagine ripetitiva, l’artista che si propone con la propria faccia, col proprio corpo e, nella transitorietà dell’azione chiede di rimanere libero da ogni tentativo di museificazione.
marcello carriero
mostra visitata il 6 ottobre 2005
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