L’arte contemporanea per illuminare il Settecento

di - 30 Maggio 2013
Perdersi tra i saloni di Cà Rezzonico, museo veneziano dedicato al Settecento e dimora della collezione donata da Egidio Martini, critico e pittore scomparso nel 2011, che comprende anche diversi pezzi del Tiepolo, è un’esperienza tra le migliori che si possa fare alla voce “arte” a Venezia.
Se poi si associa che da oggi troverete, fino al prossimo 24 novembre il lavoro di sette artisti contemporanei che hanno operato sul tema del vetro e della luce, in relazione agli spazi del Palazzo, guidati da Cornelia Lauf su un progetto della gallerista Caterina Tognon, allora il gioco è fatto.
Se arriverete all’imbrunire, troverete ad attendervi all’entrata dall’acqua, di Cà Rezzonico, Violet Murano, ultima opera di Flavio Favelli, star anche al Padiglione Italia, con il remake nel suo inconfondibile stile della Cupola di San Pietro. Qui una vecchia luminaria diviene un iconico lampadario in grado di tingere di viola, in un’atmosfera aliena, il primo approccio verso il museo e verso una mostra leggera, non invasiva, e decisamente poetica, dove spiccano per bellezza gli ambienti di Heimo Zobernig, viennese classe 1958, che realizza una serie di sfere rosse come il fuoco, nella dimensione più grande che possa essere soffiata a Murano, che riempiono di una nuova architettura Cà Rezzonico, così come riscrivono l’ambiente in maniera delicata, senza invasioni di campo, i due Caravaggio di Stefano Arienti, rami di platano dorati, ai quali sono state appese una serie di candele votive. Ecco una nuova concezione della luce, che sbuca dai rossi muri veneziani, proprio nella sala del Tiepolo.
Ancora più leggero, nel riscrivere la storia della lampada è Gabriel Orozco, con le sue piume curvate nei Roiseau 11 e 12. E poi Ontani, con il suo lampadario in vetro Mayadusa, 1988, e Airò, che gioca lontano dall’illuminazione tout court in Victor, scrittoio in legno d’acero e bambù del 2010, che contiene sul piano un ologramma. Un punctum che riflette il grandioso soffitto affrescato, il volto dello spettatore e che lascia intravedere, di sbieco, qualcosa che appare essere una piccola foglia. Metafora della luminosità della mente che cerca il sapere? Forse solo un’impressione, dettata tutt’al più dal bombardamento di questa “enciclopedia biennalesca”.
Chiude Cerith Vyn Evans, cuore pulsante della mostra, che ridona vita al celebre lampadario del Palazzo, in un’installazione “a tempo” di bellezza trasparente e colorata. Uscendo però, come accade in tutta la mostra, dalla pura dimensione del “complemento”.

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