I lavori del giapponese
Fumiko Kobayashi prendono forma attraverso un
processo di sedimentazione e conseguente accumulo, in cui i differenti contesti
nei quali di volta in volta si trova a operare sono al centro della sua
attenzione.
Un procedimento avviato da una fase preparatoria, di
studio, durante la quale l’artista assorbe le nuove suggestioni che elaborerà
solo in seguito.
“Quando viaggio o quando parlo con qualcuno, qualche volta
sento la mancanza di un senso di appartenenza, sento di essere alla ricerca del
‘posto’ che non troverò mai”, scrive Kobayashi. E ancora:
“Gli incontri con persone
sconosciute, la vita di ogni giorno e tutto ciò che mi succede attorno mi
permette di vivere queste esperienze, facendole diventare parte integrante
della mia stessa identità”.Visitando la mostra, ci si trova davanti – fra le altre
cose – a una bicicletta, una moka, libri sgualciti, vecchi telefoni a ghiera;
ma anche bustine di tè usate e variopinti incarti giapponesi. S
ono oggetti
quotidiani, trovati “sul posto” e accostati, in uno schema di ordine/disordine
dal taglio scultoreo, ad altri propri del contesto originario dell’artista.
Kobayashi li ri-programma per un uso alternativo, li rende suoi combinandoli e
compattandoli, dandogli in tal modo un proprio senso.
Si prenda la costruzione posta di fronte all’ingresso
della galleria, realizzata componendo spartane casse in legno solitamente
utilizzate da Perugi per imballare le opere durante il trasporto. La sua
regolarità geometrica e solidità strutturale viene sfumata e, sembrerebbe,
umanizzata, abitata con incorporee luci al neon incastonate al suo interno. Una
sorta di casa, quindi, che è resa tale. Un concetto, questo, espresso dal
termine inglese
Homing, che dà il titolo alla mostra.
Sebbene secondo modalità diverse, anche la fotografia di
Damiano
Nava (Brescia,
1982; vive a Berlino) riguarda strettamente il vissuto personale e le
interazioni sociali, concentrandosi più esplicitamente sulle persone, e in
particolare sui giovani e gli adolescenti. I ritratti della nuova serie
MJU (dal nome della macchina
fotografica utilizzata) sono il diario per immagini del lungo viaggio intrapreso
con il team 7milamiglialontano, partito dall’India e passato per paesi come il
Pakistan, la Cina musulmana, la Turchia, l’ex Yugoslavia.
La sua fotografia diaristica – al proposito si vedano
certe immagini di
Terry Richardson o di
Tillmans, o del più giovane
McGinley – racconta degli incontri (in
questo caso) fuggevoli, avvenuti
on the road, ma non per questo privi del
feeling necessario allo scatto. Rispetto ai lavori precedenti – della serie
Essen, datati 2008 ed eseguiti con la
Polaroid -, accanto alla vena reportagistica, dove Nava sembra mostrare un
compiacimento nel mettere in evidenza un realismo quotidiano a tratti crudo, si
nota fra l’altro una più ricercata cura compositiva e cromatica.
Caratteristica che non pregiudica, però, una naturalezza
di rappresentazione. Che appare, anzi, sempre evidente.