Un ritrovato “Maestro del silenzio in un mondo pieno di frastuono” così lo definì H. Richter e l’opera di Carl Weidemeyer (Brema 1882- Ascona 1976) costituisce uno dei casi più emblematici della feconda e innovativa stagione vissuta dall’architettura europea nella prima metà del ‘900.
Nel 1905, infatti, l’architetto tedesco aderisce alla colonia di artisti di Worpswede, incentrata sulle personalità di Vogel e Rilke. Come quella, celeberrima, di Darmstadt, essa si propone l’obiettivo di un’arte totale, in grado di rivoluzionare tutti gli aspetti della vita e dell’ambiente umano. Particolarmente rappresentativo di questo primo periodo -in cui Weidemeyer si dedica anche al disegno e alle arti applicate- è il progetto per la propria hütte (1914). Riprendendo gli stilemi dell’architettura vernacolare tedesca, il giovane architetto concretizza la volontà jugendstil di affrancare l’arte dagli accademismi ottocenteschi, riportandola alle proprie radici estetiche e funzionali.
E’ del ’28, però, la grande svolta del suo linguaggio espressivo. Weidemeyer si trasferisce ad Ascona, in Svizzera, dove si avvicina al “credo” razionalista trovando particolare favore presso il celebre critico Sigfried Giedion.
Casa Fontanelle (1928), Casa Tutsch (1930) e Casa Andrea Cristoforo (1931) si caratterizzano per la costante sensibilità verso il contesto ambientale, in cui la presenza del lago diventa matrice fondante del progetto architettonico.
Terrazze-belvedere, esedre vetrate e “promenades architecturales”, memori di Le Corbusier, diventano stilemi inconfondibili del suo linguaggio, insieme alla scala esterna che, in funzione panoramica, attraversa diagonalmente i prospetti e costituisce una sorta di “firma” dell’architetto tedesco.
Proprio ad Ascona, del resto, Weidemeyer realizza il suo capolavoro: il Teatro di San Materno (1926). Progettato per la celebre ballerina Charlotte Bara –alle cui mani dedica anche splendidi studi-, si propone come sintesi della sua esperienza creativa. Dallo Jugendstil riprende la nozione della sacralità e della totalità dell’arte, apparentando il teatro ad un tempio ribadito dalla pianta basilicale. Dal Razionalismo deriva invece la semplificazione formale, insieme all’idea del duplice percorso ascensionale che “allaccia” il progetto allo scenografico paesaggio in cui s’inserisce.
La mostra veneziana propone anche i dipinti dell’ultimo periodo. Dagli anni ’40, infatti, Weidemeyer abbandona l’attività professionale per dedicarsi interamente alla pittura, chiaramente memore di Feininger e di Klee nell’uso del colore e nella scomposizione “a diamante” dell’immagine.
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