Carol Rama (Torino,1918) espone a Venezia -dove ha ricevuto il Leone d’oro alla carriera alla Biennale del 2003- trentacinque incisioni e una ventina tra disegni e dipinti, anche di grande formato. L’editore e stampatore Franco Masoero di Torino, che pubblica per l’occasione il catalogo generale della sua opera incisa, l’ha convinta a tornare “ai torchi” dopo la serie di grafiche degli anni Quaranta, riprendendo una tecnica che aveva abbandonato. Fino al 1993, quando, come rivela Marco Vallora, assecondando il ritorno alla figurazione si è messa, “infantilmente golosa, a rimpasticciare acquatinte e carte al tino, chine a zucchero e acidi allegri, con la voluttà stregonesca d’una cuoca sfuggita alla prigionia d’una inattività secolare”.
Al pianoterra della Galleria Internazionale d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro le sue “tracce soavi di cattiveria purissima” si stendono in acqueforti, acquetinte e vernici molli, metodologie che si addicono alla resa di un tratto vicino al disegno, all’immediatezza e morbidezza del solco, e che rendono con efficacia il campionario delle smanie e delle ossessioni di accumulo del suo mondo feroce e ferito.
In un allestimento elegante, che sostiene ma lascia esprimere le opere, sfilano le Parche, incisioni all’acquaforte del 1947: “signorine bi-teste da inferno del Cottolengo, dita adunche, quasi dei sigari, e seni vizzi come gozzoniane campane di vetro”, chiuse in un’irrespirabile aria di provincia insieme ai temi ripresi dai primi acquerelli della metà degli anni Trenta. Dentiere, scarpe, piedi, organi esibiti di amanti nei preoccupanti o graditi regali-Cadeau– tornano nella grafica recente come un itinerario del sintomo sanitario o del richiamo sessuale, dove affiorano il segno tremulo di Egon Schiele e il senso accorto della composizione e del decorativismo del maestro Felice Casorati.
A sorpresa, gran trucco da maitresse dello sguardo e dell’adulterazione della materia, compaiono la dipintura delle unghie con tocchi di smalto rosso sulle mani inanellate delle carte di Seduzione (mano) (2004), interventi delicati d’acquerello, come fatti da bambini, nelle lingue rosse o rosa delle perfide Malelingue, segni tormentati simili al tratto della scrittura dei vecchi nelle dentature smarrite o nell’ossessione tremolante delle mammelle nelle Mucche pazze.
I pezzi unici sono collage di quelli che l’amico Edoardo Sanguineti definì “bricolages”: tecnica mista e camere d’aria di bicicletta su mappa del mondo intelata in Pissoirs (omaggio a Duchamp) (2005) -richiamo alle biciclette fabbricate dal padre imprenditore, con una citazione da lei impiegata fin dagli anni Settanta -, tori con la pelliccia presa in prestito da setole di scopa in Black Bull (2002) e acquetinte stampate su tela con intromissioni colorate a mano.
Se dipingere è un modo per guarirsi, come afferma l’artista, emerge dall’autobiografia delle ultime opere una costante “ricerca del nero”, un colore che per sua stessa affermazione dovrebbe “accompagnarla a morire”. Una tonalità strana e cupa da cui emerge tutta l’ambiguità della vita.
stefania portinari
mostra visitata il 16 ottobre 2006
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