Categorie: altrecittà

È la smart city, bellezza!

di - 17 Gennaio 2014
Concepito come un vero e proprio manifesto che si rivolge ad un’ampia platea (dalle categorie professionali alle associazioni di cittadini, dai politici agli stakeholders) il progetto da Smart City a Smart Land, presentato mesi fa al festival “Comodamente” a Vittorio Veneto, testimonia la pervasività di concetti che hanno rapidamente sostituito, nel gergo riguardante lo spazio urbano, i non-lieux di Augé, lo sprawl urbano, la scattered city così efficacemente ritratta da Basilico. Come molte iniziative in atto in Italia, e non solo in Italia, l’elaborazione di questo genere di proposte costituisce spesso una possibilità di accedere ai nuovi programmi di finanziamenti europei, sintetizzati da seducenti acronimi quali Jessica (Joint European Support for Sustainable Investiment in City Areas) o Elena (European Local Energy Assistance). A rendere possibile il passaggio da una dimensione urbana ad una più vasta sono ovviamente i concetti di ‘rete’ (delle infra e infostrutture, dei saperi, comunque sempre ‘diffuse’), di ‘sistema’ (della mobilità, della relazione fra cittadini e imprese, della formazione e dell’imprenditorialità), mentre le azioni qualificanti sono quelle del promuovere, valorizzare, sviluppare, facilitare.
Forse è improprio parlare di programmi o di progetti,  trattandosi piuttosto di processi che mirano a comporre, in modo armonico, gli interessi di moltissimi soggetti grazie ad una evoluta idea di governance, transitata dalla originaria sfera della conduzione aziendale alla riconfigurazione organizzativa di ogni aspetto dell’ambiente nel quale viviamo: economia, paesaggio, energia, cittadinanza, mobilità. Senza entrare nel merito di una riflessione critica sul concetto di smart city che, pur nella condivisibilità degli intenti, non di rado rischia di essere un’operazione di maquillage comunicativo e di approfondire il digital divide, è difficile non rilevare come lasci riemergere una visione olistica della città in qualche modo già ben intravedibile nelle pagine della letteratura settecentesca. Bronislaw Baczko nel suo L’Utopia- Immaginazione sociale e rappresentazioni utopiche nell’età dell’Illuminismo (1979) ha riportato descrizioni di diverse città possibili, come Leliopoli la capitale del regno dei Feliciani. O come Sevariade «concepita per la comodità e il benessere dei suoi abitanti», città-giardino alla quale una complessa rete idraulica «assicura in abbondanza l’acqua indispensabile sia per il verde pubblico che per la pulizia della città».
Parlare di città e territori smart dunque non rappresenterebbe altro che il coerente upgrade di un programma già inscritto nella nostra stessa storia di europei, ben prima della UE? Peter Sloterdijk in una conferenza del 2011 tenutasi a Berlino (Stress e libertà, a cura di P. Perticari, 2012), fa osservare che se davvero alla base delle conquiste moderne vi è una aspirazione al wellness, e non solo ad un modus vivendi “sostenibile” – termine che sembra perseguitarci “come un tic nervoso”, sintomo rivelatore della insostenibilità contemporanea -, allora andrebbe meglio compresa quella che, sempre a detta dell’autore, potrebbe essere considerata la scena fondante «legata allo sviluppo del concetto di libertà in Europa»: Rousseau che racconta le sue fantasticherie di passeggiatore solitario nella “Quinta passeggiata”. In particolare Sloterdijk riprende quei passi dove il pensatore ginevrino descrive il suo lasciarsi andare alla deriva, in barca sul lago di Bienne, senza nessun altro scopo che il vagare dei pensieri osservando il cielo, le rive boscose, ascoltando qualche verso di uccelli.  Si tratta della scoperta di una condizione di ‘inutilità’, nucleo di una nascitura idea di libertà, come “spensieratezza”, come «sublime inattività dentro di sé, senza rivolgersi ad un’agenzia di mediazione». È Il far niente (in italiano nel testo di Rousseau), condizione sulla quale verrebbe fondato il senso originario della libertà, modernamente intesa, come inattività, o meglio, con Rousseau, libertà di non fare quello che non desidero.
E ciò che definiamo realtà oggettiva che fine ha fatto? Si strutturerebbe (ancora Sloterdijk) come reazione al pericolo rappresentato da questa libertà anarchica, soggettiva, ‘romantica’ al fine di contenerne il paradossale elemento disgregante la ‘società’, intesa come insieme di macrocorpi politici volti a contenere «l’inserimento del singolo individuo nella collettività». Fonte dello stress contemporaneo è l’aver messo al lavoro paradossalmente la libertà di non far niente, sia nel senso che le attività creative – basate una volta su una problematica definizione di ‘utilità’ (‘ohne Zweck’ avrebbe detto Kant) -, sono ormai parte costituente di un auspicabile orizzonte produttivo smart; sia nel senso che dal tempo non impiegato nel lavoro si generano le attività dell’intrattenimento di massa. Attività che mettono letteralmente a frutto il nostro essere, come Rousseau nell’Isola di San Pierre, più villeggianti che imprenditori.
Il turismo costituisce non a caso una delle voci principali, uno degli elementi qualificanti il disegno di qualsivoglia smart city, o smart land. Ma esiste una tale terra? O è un miraggio, una sorta di raffinata proiezione 3D, ottenuta  trasformando in una meta da raggiungere quel nucleo di libertà priva di scopi, a cui accennava Rousseau? Sono innumerevoli, e meritori, i lavori di artisti contemporanei che hanno tentato di smantellare questa proiezione, mostrando il senso escludente e non includente di un tale miraggio. Facendo del guardarsi attorno di Rousseau un’ effettiva presa d’atto che quel che ci circonda non sono solo, ora, consolanti rive di laghi alpestri, magari innervate di invisibile tecnologia, e meno ancora splendide coste di isole mediterranee, oltre le quali si profilerebbe un vivere smart. Come aveva d’altronde già chiaramente e amaramente documentato Multiplicity con Solid Sea alla undicesima edizione di Documenta, lavoro che dovremmo purtroppo aggiornare secondo il tragico reiterarsi dei naufragi della speranza.

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