Intervista a Ryan Mendoza, dalla casa di Rosa Parks ad Arte Fiera

di - 25 Gennaio 2020

Ryan Mendoza è un artista statunitense, nato a New York, classe 1971, dai tratti e dalle vicende personali imprevedibili e tumultuose, come l’Etna che gli è tanto caro e alle cui pendici oggi trascorre gran parte del suo tempo dipigendo. Discendente diretto di Ibrahim Zacuto (colui che disegnò le mappe per Cristoforo Colombo), figlio di Miss Pennsylvania e di uno scrittore che ha riscosso successo come biografo delle celebrità, Ryan ha iniziato la sua carriera nel mercato dell’arte con la Galleria Studio Legale di Caserta insieme a Loris Cecchini e a Luca Pancrazi. Quindi ha collaborato con Galleria In Arco, Cannaviello, Massimo Minini, Lelong a Parigi, Akira Ikeda a Tokyo, White Cube a Londra e Bernd Klueser a Monaco. Dopo il suo ictus del 2007, ha dovuto cominciare a riannodare tanti fili seguendo i quali arriviamo dritti a questa edizione di Arte Fiera 2020, nello stand del Progetto Orientale sicula sotto la direzione artistica di Gianluca Collica. Per poi ritrovarlo a Brescia dal 4 aprile prossimo, in galleria da Massimo Minini, con la personale 9/nein. Abbiamo colto l’occasione del suo arrivo a Bologna per intervistarlo.

Ryan Mendoza as Garbage Bag Man, credit Fabia Mendoza

Quando e come ti sei avvicinato all’arte contemporanea?

«Mio padre era uno scrittore. Un poeta. Ho sempre voluto essere uno scrittore ma non sono mai riuscito a trovare la mia linea rossa. Oltre a questo, volevo fatti, qualcosa da guardare. Volevo un risultato tangibile. Le parole su una pagina sono come la musica che fluttua nell’aria. Devi leggere per far prendere vita alle parole. I dipinti hanno un potere più permanente e primordiale. Mio padre era spesso circondato da artisti, quindi sono cresciuto con persone che vivevano realizzando i loro sogni. Non ho mai imparato un mestiere. Questo è probabilmente il motivo per cui sono un artista oggi».

Quali sono state le città che hanno accompagnato la tua carriera artistica?

«Ho trascorso 15 anni, dal 1994 al 2009, a Napoli (Nea-polis, la nuova città) la vera New York, prima un solo anno a Roma dove ho studiato belle arti. Napoli è stata la città in cui conobbi Morra Greco che, 23 anni fa, pubblicò il mio primo libro d’artista semiserio. Prima ancora di incontrare Morra Greco, però, vivevo nel cuore di Napoli, vicino al Museo Archeologico, insieme all’ormai famoso regista Pietro Marcello e al pluripremiato sceneggiatore Maurizio Braucci. Abbiamo realizzato un primo cortometraggio insieme nel 1994 o nel 1995. Pietro e io abbiamo avuto dei dissapori sul progetto, co-diretto, ma mai finito. All’epoca Pietro si dichiarava pittore e io, per un breve periodo, mi presentavo come regista. Dopo non essere riusciti a fare la post-produzione a causa dei costi, Pietro ha continuato a occuparsi di regia, mentre mi io alloggiavo in diversi appartamenti per tossicodipendenti. Dipingevo là dove dormivo. Intorno al 1998, Morra Greco acquistò un edificio, oggi sede della Fondazione Morra Greco, e mi lasciò lavorare lì. All’epoca non c’era elettricità e acqua corrente, cerano solo topi e dovevano ripristinare le finestre. Ricordo che, mentre ne riparavo alla meno peggio una, notai che sotto la carta da parati scrostata, in una stanza sul retro, si trovavano degli affreschi. Morra Greco si precipitò a ispezionarli. Gli affreschi erano delicati, poco più che una polvere colorata sospesa, già separati dalla superficie delle pareti. Quindi mi sono trasferito a Monaco per lavorare più vicino alla Klueser Gallery. Il gallerista mi aveva convinto che Monaco era la Napoli della Germania, nulla di più lontano dalla verità. Poi finalmente sono arrivato a Berlino. Vivo lì da allora».

Quali sono i linguaggi artistici che hai praticato?

«Sono un pittore e voglio essere ricordato da mio figlio Dylan come un vecchio ragazzo diroccato con un vestito sporco di vernice e un pennello in mano. Le altre forme d’arte sono per me come dei giochi che uso occasionalmente prima di romperli e lasciarli accatastati a terra».

Qual è stato il tuo primo approccio alla pittura? Con quali lavori?

«Il mio primo vero dipinto lo intitolai “Bread and Butter” e raffigura una casa, Lincoln e l’immagine di una donna prima e dopo l’intervento plastico al seno. Era il 1996 ed è stato come dipingere una mappa per me, continua a influenzare anche il lavoro più recente. Gli Stati Uniti hanno sempre condannato i miei dipinti, è un luogo dal quale devo costantemente fuggire, ma allo stesso tempo mi sento sempre costretto a tornarci».

Active Shooter Still, credit Leona Lücke

Hai sempre alternato temi e linguaggi. Ci parli del tuo lavoro installativo relativo alla casa di Rosa Parks, la nota attivista statunitense per i diritti degli afroamericani?

«Il progetto Rosa Parks House nasce dal desiderio di riconnettermi con l’America dopo molti anni trascorsi all’estero. I membri della famiglia Rosa Parks mi avevano chiesto aiuto per salvare la casa di Detroit dove Rosa Parks si rifugiò insieme a sua madre, a suo fratello e ai suoi 13 figli, dopo essere fuggita dall’Alabama nel 1957. Mi sentii onorato e accettai immediatamente la sfida. Insieme all’aiuto di volontari, ho smantellato la casa e l’ho trasferita a Berlino, dove è stata ricostruita e accolta calorosamente. Fu al centro dell’attenzione dei più importanti media internazionali per settimane, fu visitata da gente come George Foreman e dal vice Cancelliere tedesco. Pensavo che avrebbe ricevuto un benvenuto ancora più caloroso al suo ritorno negli Stati Uniti. Rhea McCauley, la nipote di Rosa Parks, mi aveva avvertito: l’America non è ancora pronta a digerire il suo passato. Purtroppo aveva ragione. Riportai la casa negli Stati Uniti e stavo per ricostruirla presso la Brown University, che è stata fondata sul commercio di schiavi. Un caso che scotta, io suggerì in un articolo di cambiare il nome all’università: la Rosa Parks University. Chiesi: “Perché la Brown University non cambia il suo nome in Rosa Parks University?”. L’Università ha rapidamente liquidato il progetto con un commento scritto in nota all’articolo da un diretto discendente dei Browns: “I tuoi 15 secondi di fama sono finiti signor Mendoza”».

Oggi dove si trova la casa di Rosa Parks?

«Da allora la casa è rimasta in deposito, in attesa della sua prossima sede. La mia speranza sarebbe quella di portare la casa in Italia dove il problema razziale non è stato ancora approfonditamente discusso e chiarito».

Tu hai lavorato anche con il medium fotografico. Ci racconti per quali progetti in particolare?

«Ho sempre amato la fotografia. Mia mamma era una fotografa e mi ha insegnato presto come usare una macchina fotografica analogica. Recentemente sono andato in Russia dove ho scritto a Mosca sulla neve: PUTIN, MY PUTAIN. Ho pensato che fosse una risposta adeguata alla mancanza di leggi più severe in materia di violenza domestica, in cui solo le ossa rotte sono da considerare punibili. Ho fatto foto a parole scritte sulla neve. Ho anche lavorato a un progetto fotografico con la defunta attivista afroamericana Erica Garner, il cui padre Eric Garner fu assassinato nel luglio 2014, a 43 anni, da un agente di polizia a Staten Island, New York (l’agente colpevole della morte di Garner è stato immediatamente prosciolto). Ho scattato 49 immagini di una ragazza semi nuda sul cui corpo avevo trascritto, frase per frase, la lettera al giudice che scagionò l’agente di polizia dall’omicidio di Eric Garner. La domanda sottintesa era: se un agente di polizia avesse fatto la stessa cosa a una fragile ragazza bianca (perdita dei sensi per soffocamento), l’agente sarebbe stato incriminato?».

Nel 2016 c’è stato un momento particolarmente drammatico della tua vita, l’ictus che ti ha colpito. Come ti ha cambiato questo episodio e come ha modificato il tuo percorso artistico?

«Con l’ictus un paio di anni fa si paralizzò la parte destra del mio corpo. Avere un ictus è terrificante, debilita mentalmente, ma è anche uno dei modi migliori per morire. L’unico problema con l’ictus è se sopravvivi e devi riabilitare mente e corpo. Distrugge il tuo processo di pensiero in modo così assoluto, almeno nella mia esperienza, che la memoria ritorna a zero, come cancellare un disco rigido. In caso di sopravvivenza, occorre riavviare memorie fantasma o memorie di memorie, backup che lentamente si rigenerano. È incredibile quanto una persona mentalmente debilitata possa capire, anche in uno stato di arresto totale. Forse anche una persona morta il cui cervello è ancora caldo può capire cosa gli sta accadendo. Ma il terrore sta nel non riuscire a comunicare. Le parole si perdono. Le storie. Ma il lato positivo è che non avrei mai pensato di avere la possibilità di avvicinarmi così tanto alla morte e tornare poi in vita. Parte del mio cervello è definitivamente morta e il mio coordinamento non è eccezionale, ma l’esperienza mi ha dato più di quanto immaginavo e oggi dipingo con la consapevolezza che tutto ha significato e niente significa niente».

Oggi vivi tra Berlino e la Sicilia. Come è avvenuto il tuo incontro con la Sicilia? Cosa ti colpisce positivamente e cosa negativamente della Sicilia?

«Quando ho lasciato l’Italia per Berlino ho scritto su una tavola di legno: Italia ti amo ma dovevo lasciarti. Dopo un paio d’anni a Berlino, ho iniziato a dimenticare la lingua, la cultura, la cordialità degli italiani. Ogni volta che salgo sull’aereo per Catania, sorrido. Mi piace essere ai piedi dell’Etna, occupando un posto in prima fila in caso di calamità. Gli alberi di limoni, gli ulivi e la vista delle cime innevate della montagna, insieme alle guerre puniche e al mio amato Antonello da Messina, tutto così vicino. Mi fanno venire voglia di uscire e scavare nel terreno alla ricerca della città perduta di Kallipolis: so che è sotto i miei piedi da qualche parte».

È in Sicilia che, dopo alcuni anni, hai ripreso in mano i pennelli per un nuovo ciclo pittorico. Mi puoi descrivere il progetto in mostra presso la Fondazione Brodbeck?

«La mostra alla Fondazione Brodbeck di Catania è stata prodotta dopo l’ictus. Volevo aiutare mia madre a finire la casa delle bambole che non ha mai completato, e questo è il mio modo per farlo. Sto cercando di rimettere insieme le cose con il nastro adesivo. Le immagini so che mi avrebbero portato da qualche parte. Gli edifici abbandonati della Brodbeck sono così invitanti, se solo avessero un tetto, un pavimento, elettricità, alcune finestre, un bagno. I muri sono già lì. Comincio con lo sfondo e appendo un dipinto in modo precario. Buon inizio, mezzo lavoro. Un paio dei lavori realizzati saranno esposti nei prossimi giorni ad Arte Fiera 2020, nello stand del Progetto Orientale sicula, sempre sotto la direzione artistica di Gianluca Collica ».

Active Shooter at Fondazione Brodbeck,credit Alessandra Sacca

Nella tua arte si assiste a un continuo mescolamento di vita ed eros come nel romanzo che hai pubblicato da Bompiani col titolo Tutto è mio. Ce ne puoi parlare?

«Pensavo che arte e sesso fossero la stessa cosa, poiché provengono dalla stessa energia, ma mi sbagliavo. L’arte è più vasta, più accogliente del sesso. Inoltre dura più a lungo e non è così limitata. Non è necessario neanche un partner e può svelarsi ovunque in ogni momento».

Quali sono i tuoi prossimo progetti?

«La mia prossima mostra sarà da Massimo Minini a Brescia. Il 4 aprile prossimo. Si intitola 9/nein. Ha a che fare con le nove muse e con mia moglie tedesca Fabia, una cineasta pluripremiata, che non vuole più essere la mia musa e che ha iniziato a coltivare negli ultimi tempi un particolare affetto per la parola “no” ».

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