È possibile, oggi, per un artista pressoché globalmente riconosciuta, proporre ai propri collezionisti, ai fruitori e ai visitatori distratti, un messaggio semplice, con un linguaggio comprensibile ed evidente, senza rischiare di essere banale? Sylvie Fleury propone la sfida che da alcuni decenni cerca di vincere, dimostrando la tesi che è ancora possibile ripercorrere, arare, seminare e raccogliere campi già sfruttati dall’arte e dall’estetica contemporanea, facendogli acquisire il senso della riattualizzazione e soprattutto il senso della imperfetta soluzione dei problemi sociali ed estetici che la pop art prospettò e narrò.
Irrisolto risulta il problema dell’unicità dell’opera d’arte rispetto alla molteplicità della produzione seriale; irrisolto il problema dell’accessibilità al mondo dell’arte a tutte le classi sociali; irrisolto e ancora attualissimo il problema del rapporto tra artista (artefice) o esecutore umano (meccanico ed oggi, tramite l’intelligenza artificiale, digitale). Irrisolto e non ascoltato l’afflato democratico e liberale di un’arte accessibile e possibile per tutti mentre è francamente fallita la rivoluzione sessuale in un rigurgito di conservatorismo.
L’artista svizzero-tedesca ripercorre, senza temere di essere tracciata di passatismo, queste tematiche.
La mostra Shoplifters from Venus presso il Kunst Museum di Winterthur declina perfettamente questi concetti con un particolare richiamo ai problemi connessi non tanto al femminismo, quanto all’essere donna oggi. Particolarmente ammirata e fotografata è l’opera posta all’ingresso della mostra: l’iconica borsa Kelly della maison Hermès, di dimensioni lievemente maggiori a quelle realistiche, essa è posta, aperta, su un parallelepipedo bianco. L’apertura svela che contiene (o non contiene) un quadro incorniciato. Sia la pregiata pelle della borsa che la verosimilmente pregiata superficie pittorica, sono coperti da uno strato di una medesima vernice argentata che uniforma, svilisce e nega la comprensione del reale valore dei due oggetti di desiderio, ovvero dei due oggetti che possono essere stati acquistati come status symbol e il cui acquirente non riesce a vedere oltre la superficie riflettente ed esterna.
Subito dopo, nella sala attigua, un tappetino da yoga nero, verosimilmente in pelle, con inciso il logo della celebre casa di moda Gucci. Anche qui l’artista propone al fruitore l’ossimorica situazione di un oggetto sul quale porsi per riflettere, secondo antiche discipline orientali, per elevare lo spirito che non riesce comunque a superare il greve confine dell’ostentazione.
La mostra produce ancora maggiore seduzione nelle sale in cui dalla critica alla moda, alla cosmesi e all’esteriorità, si passa alla critica all’arte mercificata o, come oggi viene spesso definita, arte “fighetta”. Sono state riprodotte opere di artisti storicizzati e divenuti riferimento dell’indefinita area dell’arte contemporanea. Su queste Sylvie opera interventi all’unisono critici e rispettosi. È la grazia del suo intervento che le consente di non ferire né oltraggiare l’opera facendo salva la critica verso le dinamiche mercantili che ne hanno determinato lo sfruttamento, anche iconografico, così banalizzando il logos intrinseco dell’atto creativo.
Nell’ultima sala Fleury invita tutti a intraprendere un viaggio, lontano e veloce: ecco pronti i missili, con i quali, forse, partire per un viaggio che superi l’orbita dell’attuale frantumazione di senso.
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