Penombra, atmosfera onirica, foto e video di cose che si fanno al posto della realtà. Performances. Messe in scena. Il confine resta sempre il problema, dentro la testa di chi fa, dentro la testa di chi guarda, i confini dell’opera d’arte, i confini dello spazio espositivo. E una volta fuori la realtà, quella che poi entra nell’opera.
Cosa fanno i cosplayers a casa? In che appartamenti vivono? Che realtà creano?
Quella della tele accesa sui personaggi che impersonano mentre la sorellina gioca col telefono stravaccata sul divano o mentre succhiano ramen con gli occhi fissi sullo schermo che li proietta.
Una Cina troppo costruita assomiglia molto a certi tratti di Puglia e Calabria, poi all’improvviso i grattacieli le gru e i mantelli d’oro. Le parrucche. Le vorrei tutte.
I cosplayers sono supereroi zitti. Corrono e si inseguono, posano. Ma dentro di sé, che dicono?
Prestano il loro corpo a personaggi immaginari e poi? Vivono a discapito della realtà o contro la realtà. Quale?
Altro lavoro: come si parlano padre e figlio? Un figlio abbandonato dal padre precisamente. Che chatta con lui via Facebook e fa del risultato un’opera d’arte su due schermi che si confrontano ma non si toccano.
Anche la performance di cui sono spettatrice mixa reale e virtuale. Lo schermo riporta una chat adolescenziale fatta di amore e odio tra amiche. Poi le stesse arrivano, sono un gruppo musicale e ballano e dondolano e dondolano e ballano, le lyrics identiche alla chat sullo schermo.
Qui all’Osservatorio Prada ci si dedica molto alla confusione tra realtà, come potremmo chiamarle, analogiche e virtuali? Naturali e artificiali?
Ho visto mostre molto dettagliate su bambole gonfiabili quasi umane e sullo sviluppo di realtà virtuali e sistemi di controllo sempre più sofisticati. Sugli effetti che queste relazioni ibride hanno su di noi che per il momento siamo ancora quasi tutti umani. Catturano la mia attenzione un paio di video. Donne che girano per New York mascherate ma topless. Molto molto divertente. Quasi un esercizio da proporre ai miei studenti.
E un altro in bianco e nero, racconta il ratto di Europa, un mix di mitologia e sfruttamento del gentil sesso presentato come un’animazione dal vivo, non aggiungo altri spoiler. Mentre un terzo video alterna ritratti di attori che interpretano i ruoli affibbiatigli per la loro identità etnica e poi quelli che invece vorrebbero. Più antropologia che poesia.
Ho omesso volutamente nomi degli artisti e titoli dei lavori perché prevalesse l’atmosfera densa, claustrofobica e freddamente magmatica che questa mostra porta alla luce. Interrogandosi sul surrogato, sulla vita in contumacia che ci capita di vivere sempre più spesso, sull’ibridità di esperienze e sentimenti, che nonostante rimangano gli stessi – umani troppo umani direbbe Nietsche – ora trovano una pletora di maniere per affrontare, avvicinarsi, oltrepassare questa barriera dove mancano (sensazione personale), aria e luce.
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