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Philip Guston.
essendo un genio, merita che il suo cognome sia compitato correttamente... soprattutto avendo azzeccato tutti gli altri cognomi menzionati...
da Haunch of Venison c'erano anche dei video di bill viola, per nulla banali, anzi molto belli
Florian Neufeldt della Galleria Opdahl è un bravissimo. E' giovane e farà strada!
Un coinvolgente articolo che vi invito a leggere per valutare il maestro Renato Meneghetti.
l'Unità di sabato 29 maggio 2010 di Beppe Sebaste
Rompere teste. Arte, mondanità, indifferenza (per un'antropologia dei gesti del pubblico d'arte)
Sono giorni di grande fervore mondano per l’arte a Roma, tra apertura del Maxxi e la festa al Macro. Sono al vernissage della fiera Road to Contemporary Art, e il cortile dietro il primo padiglione del Macro, tra il muro e i paletti dello spazio ristoro, è ricoperto di teste di ceramica bianca. Sono posate per terra, erette, salvo poche rovesciate o cadute, reclinate. Un camposanto, penso. L’istinto è di circumnavigarle, e mi siedo a un tavolo dello spazio ristoro a fianco dell’opera en plein air ad aspettare un amico. E’ un buon punto per contemplare il passaggio dei visitatori. Il loro flusso è ancora contenuto, e risalta così la goffaggine di qualcuno che attraversa l’opera per sbaglio, e imbarazzato cammina come sulle uova cercando di non urtare e ferire le bianche teste. Le guardo meglio: sono di tre tipi, dalla maturità all’infanzia (quest’ultime un po’ più piccole); i loro volti hanno gli occhi chiusi, in un’espressione contemplativa che ne aumenta l’inermità.
Quasi al centro della distesa di teste c’è una striscia sottile di cocci, e il rumore di ceramica tritata mi fa alzare la testa: una coppia di incaute signore ci cammina su. Mi metto così ad osservare i gesti e le andature della gente convenuta a questo vernissage: esitanti, rispettosi, saputi, indifferenti, curiosi, distratti, irriverenti, mondani, presuntuosi, attoniti, ignari - il campionario è vasto. L’ex ministro ai Beni Culturali Rutelli, con consorte, evita le teste passando ai bordi, senza però degnarle di uno sguardo, tranne quello che ti permette di non calpestarle. Aumentano però quelli che, noncuranti, attraversano il campo minato calpestando il rivolo di cocci. Alcuni urtano le teste, che si rovesciano. Qualcuna si infrange, e il rumore è come una ferita. Ma non si voltano. Finché un giovane vestito da fighetto si lancia tra le teste come in una gimkana. Ne rompe tre o quattro prima di tornare indietro, e ride con gli amici. Passano i minuti e i visitatori, e io resto spettatore esterrefatto di un crescendo perturbante di gratuita aggressività. E’ come un documentario sull’approccio e l’interazione all’arte e ai musei: chi sono i visitatori, che cosa vedono quando guardano un’opera? L’inermità dei volti e teste per terra, bianchi e fragili, è una perfetta metafora dell’opera d’arte, che nel migliore dei casi è sempre un volto che si offre ed espone alla nostra simpatia o violenza. Vale per l’arte ciò che vale per il sacro e il gioco: cosa fa sì (per esempio) che in certi luoghi, di fronte a certi oggetti o persone, facciamo silenzio o ci togliamo il cappello, oppure rilanciamo la palla che ci cade addosso?
Quelli che evitano le teste bianche sono diminuiti a favore dei baldanzosi che le rompono. Non provano nessun imbarazzo, anzi ridono. La prima signora che rompe una testa (di vecchio? di bambino?) coi tacchi alti, inaugura un crescendo peggiore: camminano fra le teste per urtarle, come chi si diverte a far scoppiare palloncini. Una signora elegante ha un’idea migliore, seguita poi da varie emulatrici: solleva una testa con la mano e, in posa di fronte al compagno che la fotografa, la lascia cadere per terra in un fragore di cocci. Teste rotte, pezzi sparsi di volto. Senza accorgermene grido. Una coppia anziana mi chiede: “Lo possono fare?” Un altro dice: “Sì, è l’artista che lo vuole”. Non è che lo vuole, rispondo, ma certo lo ha previsto. L’opera ha un titolo perfetto, Indifference, e un cartellino spiega: quasi 1000 teste di ceramica fragile. E’ dell’artista Renato Meneghetti, galleria Factory di Berlino.
C’è una bella differenza tra intenzione (o addirittura istigazione) e previsione. Se lascio la macchina aperta e l’occasione fa l’uomo ladro, resta che si tratterebbe di un furto. L’umana indifferenza esibita degli invitati al museo, luogo elettivo dell’empatia, mi stordisce. E’ questa l’opera, lo so: fare quello che ti pare. Poi immagino che le teste che fanno scoppiare per terra, mettendosi in posa per farsi fotografare, non siano di ceramica, ma vive e ugualmente inermi. Che siano teste di bambini. Mi alzo e mi allontano, inseguito alle spalle dal rumore di cocci come ossa, come carne.