18 giugno 2010

fiere_resoconti The Road to Contemporary Art 2010

 
Né Maxxi né Macro, la fiera di Roma si restringe per lasciare la ribalta ai nuovi musei. Nata con l’intento di proporre un modello innovativo nel panorama delle kermesse europee, ha sfruttato l’appeal della Città Eterna. E ora...

di

Riveduta e corretta, l’edizione 2010 di The Road to
Contemporary Art diventa Mini e Micro. 67 gallerie concentrate nei tre
padiglioni dell’ex macello al Testaccio spartite in tre sezioni: Main, Start up
(giovani gallerie nate dopo il 2006) e Fuori Misura, lo spazio destinato alle
opere di grandi dimensioni nell’ampia spianata, allestita con bar, ristoranti e
un palco per eventi.

Come leggere questo ridimensionamento? Un fallimento della
grandeur voluta dal direttore Roberto Casiraghi? Forse sì, ma almeno due
attenuanti vanno concesse. La prima è che il mercato è cambiato negli ultimi
due anni e sono cambiate le fiere. Si intravede la luce fuori dal tunnel della
crisi, ma gli operatori si muovono ancora con circospezione, selezionano con
attenzione le loro uscite, sono molto attenti al budget, navigano a vista. Per
questo sulla carta l’elenco delle gallerie partecipanti alla fiera romana, che
in parti uguali si compone di gallerie capitoline, del nord, del resto dello stivale
e straniere, può essere promosso negli intendimenti.

Per fare un confronto, delle 138 gallerie partecipanti
all’ultima edizione di Miart, 72 (il 52%) erano lombarde. Si dirà che Milano
resta nonostante tutto il centro del mercato dell’arte in Italia, però Miart
International, con appena una dozzina di operatori stranieri, è parsa
quest’anno molto “local”, se non declinata in una sorta di Lumbard Art Fair.
Connotazione che interpreta perfettamente la forte deriva identitaria del
nostro tempo, ma forse dice qualcosa anche su una tendenza all’isolamento che
può diventare preoccupante per la cosiddetta capitale morale.

La seconda attenuante riguarda necessariamente la città di
Roma, dove oggi l’attenzione può ragionevolmente essere catalizzata più dalle
sue istituzioni museali che dal mercato dell’arte (la fiera).

Installazione di Marco Di Giovanni (Galica)
Ecco qua allora un punto di vista: The Road to
Contemporary Art non ha abdicato affatto al modello diffuso, semplicemente è
cambiata la strada, che a Roma non passa più esclusivamente per la fiera, ma transita
innanzitutto per i suoi musei. È giusto così, anche per il bene stesso della
fiera, il cui obiettivo diventa forzatamente quello di dialogare con le
istituzioni museali e fondazioni del territorio, vecchie e nuove, grandi e
piccole, pubbliche e private. Fungendo magari da elemento di raccordo tra le
varie realtà che fanno di Roma la piattaforma più vivace al momento in Italia.

A dimostrazione di ciò, vale la pena di citare due chicche
del weekend romano: da un lato l’apertura della Fondazione Giuliani, non profit
dedita alla promozione dell’arte contemporanea che si alimenta della raccolta
di Giovanni Giuliani, che per qualità e coerenza rappresenta un bell’esempio di
intelligenza collezionistica; dall’altro il Museo Carlo Bilotti, inaugurato nel
2006 da Veltroni all’Aranciera di Villa Borghese, dove tutto sembra funzionare
magicamente: buono l’allestimento, straordinaria la mostra temporanea in corso
sulle carte italiane del ’71 di Philip Gaston
, cordiale e professionale persino
il personale.

A bilancio negativo vanno gli orari balordi e gli oneri di
prenotazione di molti luoghi, dalle Accademie all’intervento di Solakov
a Villa Borghese, la mancanza di
un servizio di collegamento, infine la moltiplicazione di liste vip, elenchi
riservati, accessi a invito e via dicendo.

Allestimento costruttivista da S.A.L.E.S.
Tornando alla fiera, Continua ha alternato lavori
importanti di Gupta
e Solakov,
e Soffiantino ha allestito uno stand rigoroso ed equilibrato con lavori
di Michael Beutler
e Josh Tonsfeldt. Un sipario dava accesso allo spazio che S.A.L.E.S.
aveva gestito con lavori a parete di Hansjorg Dobliar
e Claudia Wieser, di sapore costruttivista.
Una ricerca alchemica sembra ispirare invece Marta
Pierobon
, scelta
dalla bresciana A Palazzo, galleria che alterna emergenti a maestri
consolidati, evidenziando però una buona personalità. Caso inverso è la
milanese Galica che, a fronte di buone scelte come Marco Di Giovanni
, qui con un bel lavoro ispirato
alla mitologia nordica dal titolo Ginnungagap
, Alicia Martin, Sassolino e altri, propone poi opere
decisamente più deboli e leziose come quelle Duff
e Candeloro.
Fra le tendenze emergenti vi è quella che sembra
privilegiare i valori consolidati, il curriculum vitae, rispetto a parametri
effimeri e modaioli di appena qualche anno fa. Opportunamente ecco allora Suzy
Shammah
che eredita da Mazzoli nomi di peso come Dalla Vedova
, Cucchi e Benvenuto. Sul fronte della fotografia, da Photo
& Contemporary
si nota un lavoro di Nils Udo
del 1990, artista che forse
andrebbe proposto più spesso in un periodo di particolare urgenza e sensibilità
per le tematiche ambientali. Da Ca’ di Fra’, pur nel rigido allestimento
consueto, si fanno notare soprattutto alcuni scatti sul paesaggio di Luigi
Ghirri
,
particolarmente ispirati.

Opere di Nedko Solokov da Continua
A spartirsi i marmi tatuati di Fabio Viale
, artista destinato a essere
apprezzato più all’estero che in Italia, c’erano Gagliardi e Sperone.
Da quest’ultimo, a ricordare la grande antologica al Maxxi, si osservavano i
più noti video di De Dominicis.
Alcuni dipinti del maestro, invece, li proponeva Toselli.
Alfonso Artiaco sceglieva la sponda concettuale di Paolini
e Carl Andre, Haunch of Venison
esponeva disegni e progetti di Bill Viola
, per la verità abbastanza banalotti.
Molto interessante lo stand della norvegese bilocata a
Berlino Opdahl, preso perfino a cannonate da Chosil Kil
ma ben interpretato anche dai
progetti ambientali di Florian Neufeldt
.
Tra le cose peggiori, l’altra berlinese Factory-Art,
anche a causa del dubbio gusto delle installazioni di Renato Meneghetti
, i leziosi skyline di Ottavio
Fabbri
da AMT,
l’allestimento senza capo né coda di Stephan Stoyanov. Fuori contesto la
galleria di design Fumi, mentre nella sezione Fuori Misura la prova di Michelangelo
Pistoletto
. “Luogo
di raccoglimento multiconfessionale e laico”
, è parsa un’opera piuttosto retorica e non
all’altezza della fama del maestro.

Il Tentativo di volo di De Dominicis (Sperone)
A emergere qui sono stati il grande lampadario a lampioni
di Kristof Kintera

(My light is your light
, 2008), di VM 21, ma anche l’enigmatico Senza titolo di Eduard Winklhofer (Maria Grazia del Prete).
Da segnalare anche un azzeccato parallelo suggerito da Guidi & Schoen
tra i nuovi musei romani e le architetture futuribili di Giacomo Costa
.

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con Roberto Casiraghi

alfredo sigolo

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4 Commenti

  1. Philip Guston.

    essendo un genio, merita che il suo cognome sia compitato correttamente… soprattutto avendo azzeccato tutti gli altri cognomi menzionati…

  2. Un coinvolgente articolo che vi invito a leggere per valutare il maestro Renato Meneghetti.

    l’Unità di sabato 29 maggio 2010 di Beppe Sebaste

    Rompere teste. Arte, mondanità, indifferenza (per un’antropologia dei gesti del pubblico d’arte)
    Sono giorni di grande fervore mondano per l’arte a Roma, tra apertura del Maxxi e la festa al Macro. Sono al vernissage della fiera Road to Contemporary Art, e il cortile dietro il primo padiglione del Macro, tra il muro e i paletti dello spazio ristoro, è ricoperto di teste di ceramica bianca. Sono posate per terra, erette, salvo poche rovesciate o cadute, reclinate. Un camposanto, penso. L’istinto è di circumnavigarle, e mi siedo a un tavolo dello spazio ristoro a fianco dell’opera en plein air ad aspettare un amico. E’ un buon punto per contemplare il passaggio dei visitatori. Il loro flusso è ancora contenuto, e risalta così la goffaggine di qualcuno che attraversa l’opera per sbaglio, e imbarazzato cammina come sulle uova cercando di non urtare e ferire le bianche teste. Le guardo meglio: sono di tre tipi, dalla maturità all’infanzia (quest’ultime un po’ più piccole); i loro volti hanno gli occhi chiusi, in un’espressione contemplativa che ne aumenta l’inermità.
    Quasi al centro della distesa di teste c’è una striscia sottile di cocci, e il rumore di ceramica tritata mi fa alzare la testa: una coppia di incaute signore ci cammina su. Mi metto così ad osservare i gesti e le andature della gente convenuta a questo vernissage: esitanti, rispettosi, saputi, indifferenti, curiosi, distratti, irriverenti, mondani, presuntuosi, attoniti, ignari – il campionario è vasto. L’ex ministro ai Beni Culturali Rutelli, con consorte, evita le teste passando ai bordi, senza però degnarle di uno sguardo, tranne quello che ti permette di non calpestarle. Aumentano però quelli che, noncuranti, attraversano il campo minato calpestando il rivolo di cocci. Alcuni urtano le teste, che si rovesciano. Qualcuna si infrange, e il rumore è come una ferita. Ma non si voltano. Finché un giovane vestito da fighetto si lancia tra le teste come in una gimkana. Ne rompe tre o quattro prima di tornare indietro, e ride con gli amici. Passano i minuti e i visitatori, e io resto spettatore esterrefatto di un crescendo perturbante di gratuita aggressività. E’ come un documentario sull’approccio e l’interazione all’arte e ai musei: chi sono i visitatori, che cosa vedono quando guardano un’opera? L’inermità dei volti e teste per terra, bianchi e fragili, è una perfetta metafora dell’opera d’arte, che nel migliore dei casi è sempre un volto che si offre ed espone alla nostra simpatia o violenza. Vale per l’arte ciò che vale per il sacro e il gioco: cosa fa sì (per esempio) che in certi luoghi, di fronte a certi oggetti o persone, facciamo silenzio o ci togliamo il cappello, oppure rilanciamo la palla che ci cade addosso?
    Quelli che evitano le teste bianche sono diminuiti a favore dei baldanzosi che le rompono. Non provano nessun imbarazzo, anzi ridono. La prima signora che rompe una testa (di vecchio? di bambino?) coi tacchi alti, inaugura un crescendo peggiore: camminano fra le teste per urtarle, come chi si diverte a far scoppiare palloncini. Una signora elegante ha un’idea migliore, seguita poi da varie emulatrici: solleva una testa con la mano e, in posa di fronte al compagno che la fotografa, la lascia cadere per terra in un fragore di cocci. Teste rotte, pezzi sparsi di volto. Senza accorgermene grido. Una coppia anziana mi chiede: “Lo possono fare?” Un altro dice: “Sì, è l’artista che lo vuole”. Non è che lo vuole, rispondo, ma certo lo ha previsto. L’opera ha un titolo perfetto, Indifference, e un cartellino spiega: quasi 1000 teste di ceramica fragile. E’ dell’artista Renato Meneghetti, galleria Factory di Berlino.
    C’è una bella differenza tra intenzione (o addirittura istigazione) e previsione. Se lascio la macchina aperta e l’occasione fa l’uomo ladro, resta che si tratterebbe di un furto. L’umana indifferenza esibita degli invitati al museo, luogo elettivo dell’empatia, mi stordisce. E’ questa l’opera, lo so: fare quello che ti pare. Poi immagino che le teste che fanno scoppiare per terra, mettendosi in posa per farsi fotografare, non siano di ceramica, ma vive e ugualmente inermi. Che siano teste di bambini. Mi alzo e mi allontano, inseguito alle spalle dal rumore di cocci come ossa, come carne.

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