Georges Senga, Décalquer, 2025. Exposed Torino Foto Festival, Accademia Albertina
La seconda edizione di EXPOSED Torino Foto Festival si propone come un’indagine oltre la superficie, esplorando il modo in cui le forme della materia che ci circonda riflettono sulle strutture di controllo. Il progetto, diretto da Menno Liauw e Salvatore Vitale, analizza diversi aspetti del complesso meccanismo di cui facciamo parte attraverso il lavoro di 16 fotografi internazionali. Ognuno di loro presenta una ricerca che tramite le immagini, offre la possibilità di conoscere o approfondire cosa si nasconde tra le maglie del nostro sistema.
Quest’anno l’Accademia Albertina di Torino è la sede centrale del festival, offrendo nello spazio della Rotonda del Talucchi, le mostre di Georges Senga, Gregory Halpern, Lisa Barnard, Valeria Cerchi e Silvia Rosi. Il progetto di Georges Senga (Lubumbashi, Congo, 1983), installato nel cuore della rotonda, ricalca una storia dimenticata o addirittura mai raccontata. La sua ricerca si focalizza su una vicenda di estrattivismo minerario neocoloniale del Katanga, nella Repubblica Democratica del Congo. Tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Ottanta i lavoratori giapponesi della Nippon Mining Company furono trasferiti a vivere e lavorare nella regione di Lamba, presso la compagnia mineraria SOMIDICO. La loro permanenza durò per un decennio, finché il presidente congolese Mobutu pose fine alla collaborazione con l’azienda mineraria e i lavoratori se ne tornarono definitivamente in Giappone, abbandonando i figli nati durante quegli anni di permanenza. Questi bambini, oggi adulti, sono i protagonisti degli scatti di Georges Senga, che con le sue fotografie ridà voce ad una comunità permeata dall’unione di due culture profondamente diverse. Il fotografo utilizza il ritratto africano realizzando delle composizioni in cui l’estetica minimalista giapponese si fonde con la vibrante tradizione africana, restituendo la bellezza singolare dei soggetti ritratti.
Anche Silvia Rosi (Scandiano, 1992) si serve del tradizionale ritratto in studio, in questo caso autoritratto, tipico dell’Africa Occidentale e immergendosi negli archivi fotografici di famiglia posa come sua madre, creando un legame tra passato e futuro. Mentre Valeria Cherchi (Sassari, 1986) affronta il tema della violenza ostetrica, condividendo una tragica vicenda familiare insieme alle testimonianze di altre donne, in un percorso catartico che vuole diventare strumento di solidarietà. Nella stanza adiacente, Gregory Halpern (Buffalo, USA, 1977), fotografo della Magnum Photos, si concentra invece sull’universo maschile e documenta la provincia americana del Nebraska ponendo l’accento su scene ordinarie di vita quotidiana. Infine, Running Fast-Senses OFF di Lisa Barnard (Kent, Regno Unito, 1967) è un progetto fotografico che indaga letteralmente sotto la superficie delle cose, focalizzandosi su quelle forze invisibili che modellano il nostro mondo, come i droni e la realtà virtuale. Attraverso la ricerca sul campo e l’estetica fotografica, l’artista denuncia l’onnipresenza degli schermi, interposti tra l’occhio umano e gli ecosistemi naturali.
L’Archivio di Stato ospita la mostra Not Bad Intentions. Attempts to Coexist di Sheng-WenLo (Taiwan, 1987), a cura di Daria Tuminas. La sua ricerca si delinea come una richiesta di assunzione di responsabilità nei confronti del nostro ecosistema, stimolando una discussione critica nei confronti dell’ imposizione antropocentrica. Con il progetto Down (2017-2018), Sheng-WenLo realizza una giacca imbottita di piume raccolte a mano, direttamente da terra, perse naturalmente dalle oche. L’artista, prova il piumino in mezzo ai ghiacciai del nord, documentando con video e immagini tutto il processo di ricerca.
Una serie di fotografie appartenente al lavoro White Bear (2014-) esamina invece la vita di orsi polari in cattività, rinchiusi nei recinti zoologici artificiali, al confine tra conservazione e intrattenimento. Lo sguardo di Sheng-WenLo è una carezza ecologica che riguarda tutto il pianeta, mostrando preoccupazione anche per l’espansione della coltivazione di alghe che, come qualsiasi pratica legata al profitto, dimostra di provocare grosse interferenze ecologiche. Nella stessa sede, la mostra collettiva To Be In and Out of the World, a cura di Zoé Samudzi, presenta i lavori di tre artisti internazionali, Tiffany Sia (Hong Kong, 1988), Ahlam Shibli (Palestina, 1970) e Nolan Oswald Dennis (Zambia, 1988), in una triangolazione visiva che indaga concettualmente il rapporto tra territorio, appartenenza e potere.
Se è indispensabile assegnare un nome a qualcosa per poterne ricordare l’esistenza, Paolo Cirio (Torino, 1979) riporta le migliaia di nomi dei ghiacciai che si stanno sciogliendo per via del riscaldamento globale nell’opera scultorea Alps Glaciers Memorial (2023), installata nell’atrio di Palazzo Carignano. Allo stesso modo, con Climate Culpable (2021), espone delle bandiere annerite con olio di motore, decorate con i loghi di alcune aziende responsabili per oltre il 50% delle emissioni globali.
Proseguendo sulla scia delle dinamiche di potere e dominio, l’artista River Claure (Cochabamba, Bolivia, 1997) percorre in canoa oltre 377 km tra la natura incontaminata del sud dell’Ecuador e del Nord del Perù per raccontare attraverso la fotografia le narrazioni nascoste degli abitanti delle comunità locali. Il fotografo boliviano racconta il Far West Amazzonico con il progetto Once Upon a Time in The Jungle documentando una cultura segnata dalla devastazione coloniale.
Alle OGR tre distinte mostre a cura di Samuele Piazza e Salvatore Vitale eplorano la relazione tra fotografia e simulazione nell’era dell’intelligenza artificiale. Se Alan Butler (Dublino, Irlanda 1981) crea un erbario di piante immaginarie prese dall’universo video ludico, Nora Al-Badri (Marburg, Germania, 1984) realizza dei “tecno-reperti” mesopotamici attingendo agli archivi fotografici di alcune istituzioni museali. Lawrence Lek (Francoforte sul Meno, Germania, 1982) con l’opera Empty Rider (2024), presenta il processo di un’auto a guida autonoma, colpevole per il tentato omicidio del suo stesso creatore. Attraverso un racconto creato con la computer grafica, il visitatore è trasportato in un universo al limite, costituito da sistemi robotici che ormai hanno preso il sopravvento, in un contesto dove non vi è traccia di esseri umani.
Al contrario, le Gallerie d’Italia di Torino, presentano al pubblico The Heart of The Matter la grande mostra della fotografa americana di fama internazionale, Carrie Mae Weems (Portland, USA, 1953), a cura di Sarah Meister in collaborazione con Aperture. Nelle sue immagini, intrinseche di identità e gesti carichi di significato, prende vita Preach, un progetto dedicato alla religione e alla spiritualità come forma di resistenza da parte delle comunità afro-americane. Sono esposti anche lavori emblematici della sua ricerca, come The Kitchen Tabile Series (1990), una serie che illustra il melodramma domestico di una coppia, dall’intimo e romantico inizio all’estraniamento e al dolore, sino alla ricerca di una resiliente indipendenza.
Infine, CAMERA, dedica uno spazio alla storia e alla cultura enologica delle Langhe del Barolo con Cultus Langarum di Olga Cafiero (1982), a cura di Giangavino Pazzola. Tra tradizione e innovazione racconta il mondo del lavoro e della sostenibilità ambientale, con uno sguardo “in negativo” che tende all’astrazione.
Who decides what is remembered and what it si forgotten? EXPOSED questiona attraverso questa domanda a cui viene spontanea una sola risposta. Siamo noi che decidiamo cosa viene ricordato e cosa viene dimenticato. Questa edizione di Torino Foto Festival è sicuramente un’occasione importante di approfondimento e confronto per stimolare riflessioni e percorsi di ricerca capaci di dare vita a nuovi germogli di pensiero e d’azione.
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