Cowen si immagina nelle vesti di un consigliere presidenziale che prende le
mosse da alcuni dati di fatto: “Il modello
americano incoraggia la creatività artistica, mantiene al livello minimo la
politicizzazione dell’arte e lega economia ed estetica in una relazione
simbiotica”.
I problemi da affrontare però sono parecchi. Innanzitutto quello della
commensurabilità. Ossia, con quali criteri supportare l’arte, visto che “la maggior parte dei progetti artistici sono
fallimenti commerciali ed estetici”? Quello meramente economico, ossia la
disponibilità dell’individuo di pagare, è sì uno standard valutabile, ma si
scontra con un approccio più contrattualista, che esamina la questione a
livello più “alto”, andando a guardare non il singolo ma le categorie sociali.
E le cose si complicano, poiché la valutabilità perde in chiarezza. Inoltre,
vanno prese in considerazione le “positive
externalities” a più ampio spettro: “Un
sussidio, se applicato correttamente, può creare più risorse di quanto costa”.
Giungiamo così all’argomento dello sviluppo economico: l’arte genera
economia e dunque contribuisce al “general
social welfare”, poiché – ma il discorso vale per ogni ambito, non solo
culturale – la produzione di idee nuove e varie contribuisce alla crescita
economica. E tuttavia, questo argomento non si traduce immediatamente in uno a
favore dei sussidi diretti all’arte: in primo luogo, perché la capacità
dell’arte di generare economia implica che l’arte stessa potrebbe farlo anche
senza aiuti di Stato; in secondo luogo – ma qui pare l’argomento del paiolo
bucato esposto da Freud -, se l’arte abbisogna di aiuti, difficilmente potrà
generare una notevole crescita economica. Insomma, le argomentazioni utilizzate
per sostenere i sussidi non tiene conto del fatto che si sarebbero potuti
spendere quegli stessi denari in altre attività, e non è detto che le
conseguenze sarebbero state di minor impatto, almeno a livello economico.
Vi sono però altri due argomenti che l’autore ritiene più rilevanti a
favore dell’impegno statale nei confronti dell’arte. La decentralizzazione,
poiché la creatività si nutre di differenti visioni e, poiché molte di esse
sono destinate all’insuccesso, conviene puntare su una pluralità di opzioni (lo
stesso discorso vale, ad esempio, per la ricerca scientifica). Il secondo
argomento è quello “simbolico” del prestigio, che si può sintetizzare
nell’affermazione: “Un governo che
supporta le arti è considerato più bello e prestigioso”.
Date queste premesse, ed effettuata un’attenta analisi dei variegati fondi
che il governo statunitense elargisce all’arte, Cowen giunge a conclusioni che
forse non piaceranno a molti addetti ai lavori, ma che hanno la statura per
esser prese almeno in considerazione. In buona sostanza, “la miglior politica artistica stimola la scoperta creativa in maniera
più generale. Ciò implica un’economia forte, numerose e diversificate fonti di
finanziamento decentralizzato per l’impresa creativa e politiche sensibili nei
confronti della scienza, della tecnologia e dell’educazione”. In altre
parole, lo Stato come “an enable, not a
doer”. In Italia prosaicamente diremmo: fateci studiare, dateci gli strumenti;
poi ci pensiamo noi.
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La
rubrica di Pier Luigi Sacco
Econo-mia secondo Severino
marco enrico giacomelli
*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 69. Te
l’eri perso? Abbonati!
Tyler Cowen – Good & Plenty
Princeton U.P., Princeton (NJ)
2010
Pagg. 198, $ 21,95
ISBN 9780691146263
Info: press.princeton.edu
[exibart]
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