Scultura lingua morta? La domanda non è nuova, ma non sono finite le polemiche contro questo mezzo espressivo, rinviato a giudizio con l’accusa di essere irrimediabilmente legato alla storia dell’arte, e dunque conservatore e reazionario, incapace di far presa sul mondo attuale, che è caotico e fluttuante.
Tra le diverse strade percorse dagli artisti contemporanei per riabilitare la scultura, particolarmente interessante è quella legata alla sperimentazione di nuovi materiali che –a differenza di legno, marmo, bronzo…– non portino con sé il peso della tradizione. Come a dire, con McLuhan, che il mezzo è il messaggio. Eclatante il caso di Tom Friedman, che utilizza non solo piccoli oggetti quotidiani e materiali facilmente reperibili, ma addirittura elementi organici “sospetti” provenienti dal proprio corpo, come capelli e peli pubici. Ma ci sono molti altri artisti che attingono a ripostigli domestici, garage, fabbriche e botteghe per realizzare le loro opere. È il caso di Shirley Tse, che recupera lo scarto par excellence (il packaging) sfruttandone al massimo le potenzialità estetiche, di Sarah Sze, che combina gli oggetti più svariati in composizioni complesse ed eleganti, di Berta Fischer.
Proprio con una personale di quest’artista tedesca (Düsseldorf 1973) la galleria Galica ha scelto di inaugurare il nuovo spazio milanese, grande e luminoso, in viale Bligny. Il lavoro di Berta Fischer s’inscrive nel filone di un riciclo creativo, capace di dare nuova dignità a materiali apparentemente triviali, più facili da trovare in un cantiere che in una galleria d’arte. In realtà, l’inizio di questa rivoluzione va retrodatato a quarant’anni fa, quando il minimalismo, subendo il fascino dell’estetica industriale, introdusse massicciamente l’utilizzo di materiali tecnologici, come per esempio il neon, l’alluminio, il plexiglass. Del minimalismo, però, Berta Fischer abbandona la fredda serialità e le esasperate geometrie, prediligendo un’estetica che rifugge la rigidità di qualsiasi schematismo per rimettere in campo la creatività dell’artista.
Le sculture in mostra sono realizzate con asticelle flessibili di plexiglass, incastrate l’una nell’altra a formare grandi strutture irregolari simili a gomitoli, caratterizzate da un’estrema leggerezza. E proprio questa è la cifra stilistica dell’artista tedesca. Che sbuchino dalle pareti, crescano dal pavimento o scendano dal soffitto, sospese a invisibili fili di nylon, le sculture di Berta Fischer appartengono a un universo trasparente, che sembra consistere più di luce che di materia. Sebbene siano forme astratte e autoreferenziali, queste opere – con la loro forza e delicatezza – possono ricordare forme biologiche, fragili e tenaci al tempo stesso. Vasi sanguigni e linfatici intrecciati si rincorrono attraversando lo spazio della galleria, nuclei cellulari illuminati da un laser, molecole di emoglobina in attesa di compiere una nuova missione. A partire da un materiale cool e industriale, piegato ai capricci dell’immaginazione, Berta Fischer è così riuscita a ricreare un mondo pulsante di vita, sovvertendo e negando – come le più avanzate ricerche sull’IA – l’opposizione tra naturale e artificiale.
silvia margaroli
mostra visitata il 5 maggio 2004
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