Maria Luigia Gioffrè, Pangea, 2019, Courtesy of the artist
Gli spazi del Marca di Catanzaro in cui prende forma la mostra di Maria Luigia Gioffrè (Soverato, 1990), a cura di Gaetano Centrone e Simona Caramia, sono ubicati al piano sottostante: così, scendendo, si ha l’impressione di avvicinarsi a un primordio. La terra diventa giardino a contatto con l’uomo, spazio di intervento e che altrimenti rimarrebbe campo, strumento chiave per la lettura della mostra.
Il discorso nelle sale si articola gradualmente, prima attraverso fotografie che documentano la performance in tre atti Purgatory of Spring – Seminatrice, Eden e Preghiera – in cui azioni sisifiche sottolineano costanti equilibri e tensioni che riflettono su binomi come aridità/fertilità, fallimento/creazione, deperire/sbocciare. Azioni che traducono e contengono riferimenti iconografici, atemporali e classici, come l’allegoria della Fortuna bendata, che ricorda la Seminatrice, e la cornucopia presente in Preghiera, che connota una certa materialità del desiderio.
Nella seconda sala sono presenti due monitor con estratti video della performance Eden, in cui il giardino diviene spazio privato di un appartamento in rovina per ragioni che non si ricordano più. Eppure sono ragioni così vicine a noi che quasi raccontano la prossima estinzione umana: nel primo video, due umani in tuta asettica ripiantano un giardino secco, mentre in sottofondo si sentono abbai di cani, pianti e rumori di lame. Mentre, sul monitor a fianco, fa da contraltare il video intitolato Pangea, con un’altra performance, questa volta al di fuori della trilogia sulla terra Purgatory of Spring. In Pangea, infatti, l’artista è ripresa nell’atto di strappare le pagine di un atlante geografico, che immerge una a una in un catino d’acqua: la carta viene lavata più volte, fino a che si deteriora completamente.
Si arriva dunque al cuore della mostra, al “giardino”. Venticinque tonnellate di terriccio scuro in uno spazio di 150 metri quadrati si snodano tra le pareti del museo e si rivelano attraverso suoni che richiamano le origini dell’esistenza di ogni essere umano. Un pianto di neonato, un pianto vergine, neutrale, universale, misto a una ninna nanna di Brahms, generano un puro valore ritmico, suscitando uno stacco inaspettato tra i suoni e la terra arida.
Un’ulteriore installazione prevede un rotolo di carta ricoperto da segni asemantici primordiali e accompagnato dal suono rasserenante di un vero carillon. Il tutto appoggiato su delle piccole sedie, per inscenare così un’epifania d’infanzia.
Tutti stimoli (visivi, tattili, sonori) quelli offerti dal percorso espositivo, che diventano pertanto memoria e che, nel contempo, indirizzano lo spettatore verso l’aridità che lo circonda. L’infertilità della terra – un campo arato eppure con rami secchi e vasi vuoti – diventa così il tratto di congiunzione immaginario tra l’Eden primordiale e il paesaggio apocalittico di un futuro non troppo lontano. Una “fine del mondo” evocata non in chiave biblica o di denuncia politica, ma come racconto dell’archeologia di una natura passata e futura.
Conclude la mostra al Marca di Catanzaro, l’opera Lettere di non corrispondenza per un vuoto permanente, un percorso parallelo di riflessione che fa parte della ricerca personale della Gioffrè, un lavoro di traduzione segnica del dire.
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