Categorie: Musica

Dorado, la pura astrazione di Mahmood al Museo Egizio di Torino

di - 17 Luglio 2020

Dorado è l’ultimo brano di Mahmood, uscito a metà luglio, prodotto da Dardust, con la partecipazione di Sfera Ebbasta e Feid, riproponendo la formula ormai in voga da anni dell’ospitata di altri cantanti, per catturare target che altrimenti non sarebbero stati raggiunti. Il brano è tipicamente Mahmoodiano, con inflessioni orientali, con la tradizionale allusione alla mamma e a una cultura permeata di religiosità e, perché no, misticismo. D’altro canto, non solo i cristiani stringono rosari, anche il mondo musulmano ne ha uno proprio, chiamato Tasbeeh, per elencare i 99 nomi di Dio. Ma Mahmood è anche nell’ambientazione nordafricana, nelle sfingi e nelle silenziose statue dell’oscuro salone del Museo Egizio di Torino, grande protagonista, almeno per noi. Saranno state le direttive ed esigenze di tutela previste dal museo a dettare alcune scelte particolarmente sobrie di questo video.

In breve, la storia: lui, in una stanzetta spoglia e adolescenziale, gioca a un Nintendo dalla scocca di plastica dorata, mentre accenna a una vita agra e ai suoi desideri. Il gioco è un omaggio agli ottant’anni di Bugs Bunny. Attraverso gli arabeschi del fumo dell’incenso, il nostro eroe si ritrova in un luogo-altro vagamente egiziano. Alessandro Mahmoud con il suo corpo scultoreo ambrato danza sinuosamente tra le statue ieratiche, riempendo con una coreografia essenziale lo spazio misterioso che si incontra alla fine del percorso espositivo del museo torinese.

Ammettiamolo: quando abbiamo visto il cantante accennare passi di danza sulla sfinge, si è affacciato nei nostri cuori un pizzico di sdegno, immediatamente placato dall’apparizione sullo sfondo della maxi-scritta Lavazza, che ci rassicura che non si tratta di uno dei pezzi del Museo di Torino, ma della copia della dea Sekhmet, realizzata nel 2006 da Giugiaro Design e situata alla rotonda dell’autostrada, direzione Milano.

Di oro si parla molto ma in maniera astratta, come fosse un miraggio proveniente da epoche lontane, popolate da faraoni, piramidi e gioielli. Rispetto a tanti (t)rapper italiani che riempiono i video di Maserati e ragazze provocanti, è chiaro che Mahmood non vuole dimostrare nulla, sa di essere l’anello “più caro del mercato”, nonché l’unico ad aver fatto coming out in una scena tipicamente machista. Non importa quante letture del mondo mediorientale ci siano, sono tutte ripiegate l’una sull’altra, accostate senza timori. Il sound riecheggia una vaga ambientazione nordafricana, a metà tra Aladdin, le Mille e una notte e i canti dei muezzin, con passaggi quasi salmodiati, di cui non si sentiva nella musica italiana dai tempi dei CCCP. Di orientaleggiante c’è anche il font scelto per il titolo e i crediti finali.

Se non fosse una canzone estiva per cui arabo fa rima con esotico, forse l’ascoltatore medio italiano sarebbe insorto contro l’immigrato marocchino, come avvenne in occasione della vittoria di Mahmood al Festival di Sanremo del 2019. Per questo gli riconosciamo il grande merito di provare a instillare pillole di cultura di matrice araba, troppo spesso associata all’11 settembre e al sedicente Stato Islamico.

Sulla scia della sobrietà arriva Sfera Ebbasta, adagiato su una poltrona di una sala del Museo Egizio. Pochi vezzi se non una matura signora che realizza un’articolata manicure al laser, quasi fosse una restauratrice alle prese con antichi e rari oggetti del passato o un’esperta orafa. Lui lo conosciamo tutti, ha svezzato le nostre orecchie e i nostri occhi ormai qualche anno fa con pezzi come Popstar, Serpenti a sonagli, Cupido.

Diversamente da Mahomood, il suo è un modo ingordo di approcciare al successo, una forma di gratitudine espressa ogni momento a se stesso e alla fortuna che lo ha portato a essere esageratamente ricco e famoso. Nella sua strofa tornano i temi dominanti, donne e motori (secondo l’antico detto), oro, soldi, soldi, soldi, di cui molto si è parlato anche in questo articolo di Giuseppe Aiello.

Dulcis in fundo, è il turno del colombiano Salomón Villada Hoyos, aka Feid, che appare come un ologramma. A questo punto della narrazione qualcosa non torna nella sceneggiatura ma trattandosi di un video di musica pop italiana, per la regia di Attilio Cusani, possiamo chiudere un occhio. Lo stesso Sfera si fa traghettatore dalla cultura mediorientale a quella ispanoamericana, che nella stagione calda non guasta mai. Ed è con Feid che il brano trova il felice – e ordinario – epilogo estivo.

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