Categorie: parola d'artista

exibinterviste | la giovane arte – Marco Baroncelli

di - 15 Novembre 2002

Ci vuoi raccontare della tua attenzione per l’immagine, della tua visione del mondo che ritrai?
Innanzitutto la scuola che ho frequentato mi ha insegnato a fare particolare attenzione al quotidiano, ai segni che l’uomo lascia nel suo percorso; tutta la fotografia, soprattutto il percorso fotografico italiano, degli anni ’70 e ’80, aveva quasi escluso la figura dell’uomo e all’interno del paesaggio andava a ripescare le sue tracce come una sorta di percorso archeologico. Tutto questo a livello didattico bene o male mi ha segnato, mi ha quasi costretto, in qualche modo, a ripercorrere quelle strade, anche se poi però ho sentito l’esigenza di sganciarmene.
Per un certo periodo, quindi, subito dopo la scuola ho intrapreso quel tipo di percorso, anche se in maniera diversa, meno rigorosa, finché non ho deciso di scattare in modo più veloce, molto meno meditativo, quasi preso da un impulso, non facendo attenzione, diciamo, alla possibilità di poter andare oltre l’immagine. Il bisogno di capire che cosa viene detto, è un passo che ho fatto in seguito.
In quel momento, avevo bisogno di non avere nessun tipo d’inquadramento in testa ed il partire con l’idea di fare un lavoro che avesse già a priori delle impostazioni ben precise era per me come trovarmi in una scatola chiusa. Da li è nato Lapsus Linguae, percorso che tra l’altro ancora sto portando avanti.

In Lapsus Linguae fermi diversi attimi di vita, li decontestualizzi e poi li ricomponi in dittici e trittici creando realtà nuove e differenti rispetto a quella dalla quale attingi. Non ti è mai capitato di avere in testa un’immagine, di non ritrovarla nella tua quotidianità ma di volerla a tutti i costi fermare con la macchina fotografica?
No, sinceramente no, perché secondo me questo appartiene più alla pubblicità, il fatto cioè di ricreare delle situazioni che già esistono. Magari tecnicamente funzionano anche, però non m’interessa, preferisco stare nel mondo e prendere quello che succede.

Hai trovato sempre tutto quello che cercavi, nel mondo?
Nel caso di Lapsus Linguae, per esempio era come se non cercassi nulla, come se da quel punto mi fossi in qualche modo azzerato, avessi azzerato tutte le mie aspettative…proprio per ricreare dei lapsus, qualcosa che venisse fuori da solo.
Chiaramente abbiamo degli stereotipi in mente, degli immaginari comuni che bene o male ci rappresentano, quindi, alla fine l’occhio va a ricadere su delle cose magari già viste, già fatte, o su delle immagini di altri fotografi che avevano già creato quella situazione. Per qualche motivo, allora, ci si sofferma su quella ed in qualche modo su quell’impronta se ne lascia una propria, ulteriore. Ovviamente non sarà mai la stessa cosa, ma il fatto è che si può esser influenzati dal lavoro di un altro artista, perché t’inchini a volte di fronte ad alcuni e capisci che da loro puoi acquisire qualcosa. Penso che oggi l’arte sia un po’ il prendere tante cose e poi rimetterle insieme e rielaborarle. Alla fine la fotografia è proprio questo: prende ciò che già esiste e comunque lo ritrasforma, lo mette su una superficie bidimensionale e diventa tutta altra cosa. E’ una forma, se vuoi in maniera molto traslata, di ready made, di prendere qualcosa già fatto. Poi, chiaramente, c’è l’intervento dell’artista che lo rielabora a suo modo.

Mi dicevi che ad un certo punto hai sentito l’esigenza di andare oltre l’immagine. Con Interno giorno ed Interno notte hai iniziato a far parlare i tuoi soggetti, questo perché non credi nel potere oggettivante dell’immagine?

…dell’immagine, in quel caso si andava a ritrarre una persona e quindi si parla di maschere, sia in Interno giorno che in Interno notte. In quel caso la fotografia da sola non bastava.

In Interno giorno fotografi persone viste per caso per la strada e chiedi loro di raccontarti quello a cui stanno pensando, mentre in Interno notte irrompi nell’intimità del rapporto che s’instaura tra il lettore ed il suo libro, riportando sull’immagine brani segnati dai tuoi soggetti: lo stesso progetto, ma due impostazioni diverse…
Se in Interno giorno la situazione era del tutto casuale, per Interno notte ho fotografato soprattutto persone che conoscevo, chi più chi meno profondamente. Mi piaceva l’idea di sondare in qualche modo la loro intimità, ed ho avuto modo di capire molto di più rispetto a queste persone, andando a vedere dove la loro attenzione si era soffermata e questo è stato un po’ una violazione, di cui, però, penso siano state contente. Come, non so, una sorta di rapporto d’amore, per cui se una persona si avvicina è perché te glielo permetti, altrimenti questo non avverrebbe.

L’hai fatto per amore?
L’ho fatto soprattutto per curiosità, che poi è una componente dell’amore: il fatto di scoprire l’altra persona e la visione che ha del mondo. Difatti la ricerca in quel caso era il tentativo di sfondare l’immagine, di andare oltre. Dopo il periodo di Lapsus Linguae dove la visione era elaborata e mi permetteva di strutturare un linguaggio nuovo, perché erano cose già viste e, comunque, che io riprendevo, in Interno giorno – Interno notte si aggiungeva all’immagine qualcosa che magari andava a “distruggerla” o forse addirittura la rafforzava. Comunque era sempre una scoperta, perché alla fine potevo avere una visione diversa della persona che ritraevo e a volte si rafforzava l’idea che mi ero fatto di questa.

Nei giorni scorsi hai partecipato alla rassegna L3 a Roma con una video proiezione. Ce ne vuoi parlare?
Questo lavoro, fatto insieme ad Enzo Orlandi, un artista che si occupa di suoni e di musica, è parte dell’ultimo percorso che ho intrapreso, quello di avvicinarmi al sociale.
Per me l’arte non è solo una forma d’espressione, un modo di esprimere i propri sentimenti, di portare all’esterno i propri fantasmi e renderli visibili e meno terribili, ma credo che l’arte possa anche esser utile a livello sociale. Così, dopo aver iniziato a collaborare in un centro di volontariato contro la tortura e dopo avere incontrato persone scappate da realtà allucinanti e ritrovatesi sole in un altro paese, ho voluto dare un contributo e fare il punto della situazione dell’immigrazione; nel farlo mi sono soffermato sul fatto che pur essendo noi un popolo di emigranti, ce ne stiamo dimenticando.
Così è nato Parole crociate, in cui abbiamo sovrapposto, anche acusticamente, ad immagini di vecchi emigranti italiani, le parole di extracomunitari da noi intervistati intorno alle loro esperienze di vita in Italia e con gli italiani.

Bio
Marco Baroncelli, nato a Prato nel 1967, vive e lavora a Roma. Tra le sue personali e le collettive ricordiamo Contemporary Italian Landscape Photography, Mese della fotografia – Bratislava – 1994, una personale presso la galleria Sala 1 a Roma nel 1997, Frammenti, presso l’Accademia di Ungheria in Roma nel 2000, Interno Giorno – Interno notte, Galleria Estro Padova 2001, fino alla recente partecipazione ad Enzimi festival 2002, nell’ambito di Sottovuoto – progetto area zer06sei e Parole Crociate, L3, Studio Lipoli, Roma 2002 a cura di Emanuela Nobile Mino e Sabrina Vedovotto.

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federica la paglia

Exibinterviste-la giovane arte è un progetto editoriale a cura di paola capata

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