Se stiamo parlando di architettura, vorrei dire che non sono un architetto industriale. Ho soltanto un piccolo studio con tre persone e non costruiamo grattacieli, ponti immensi o altre cose di ampie dimensioni. La chiamo architettura artigianale. Come mio padre, che era un architetto-artigiano. A casa nostra, dove lavorava, aveva una stanza e passava la notte cancellando gli errori, perché non voleva rifare il disegno da capo. Ovviamente a quei tempi non c’erano i computer. Oggi basta che schiacci qualche bottone e puoi fare un disegno nuovo. Ma a quel tempo o cancellavi gli errori o dovevi rifare il disegno. Mia madre lo aiutava e anche lei passava le notti a cancellare. Ricordo che da bambino vedevo questi due poveracci con una lampada che cancellavano disegni. Eppure lui pensava che un disegno dove puoi vedere le tracce di ciò che è stato cancellato rende meglio l’idea della storia del lavoro, del pensiero che ci sta dietro e del perché sono stati fatti dei cambiamenti. Per un architetto come me che pensa dieci progetti, è già tanto se ne viene realizzato uno. In architettura, se si vuol essere un po’ precisi, bisogna distinguere tra edificio e architettura. In una città, in ogni città, ci sono migliaia di edifici, ma sei fortunato se trovi due architetture, forse. Un’architettura per me non è solo qualcosa di esterno. È il disegno di un luogo dove se entri ti metti a piangere.
Oggigiorno si fanno sempre più mostre in musei e gallerie su designer e architetti. Lei l’ha fatto per decenni. Perché sente il bisogno di mostrare continuamente il suo lavoro?
Ho sempre pensato che probabilmente sono egocentrico, che se voglio imparare devo mostrare quello che faccio. Voglio lanciare il mio lavoro nel mondo e vedere cosa succede. Se c’è una reazione positiva, negativa o se semplicemente non c’è reazione. Credo di poter imparare di più se il mio lavoro è nel mondo. A volte spargi su un tavolo schizzi, disegni e carte perché credi che in tutto questo caos ci sia qualcosa di buono. Ma quando una rivista ti chiede qualcosa da pubblicare devi essere più selettivo. A volte ti accorgi che in questo caos di carte non c’è nulla che valga la pena di pubblicare. O per lo meno devi essere più critico e proiettarti fuori dal tuo lavoro. Credo che questo sia il momento cruciale: quando ti vedi dal di fuori. Per me questo momento sopraggiunge spesso quando valuto se fare una mostra, quindi direi che le mostre hanno avuto un ruolo fondamentale nella mia vita.
Credo che ogni idea molto forte duri molto poco. Il cubismo è durato tre anni e poi è diventato surrealismo e poi un nuovo tipo di cubismo. Ma il cubismo vero non è durato molto. Dato che le idee forti sono tali, non si possono sviluppare. Sono quel che sono. Arrivano come un lampo. Sono lì e poi è finito. Non puoi dire “adesso prendo il lampo, voglio che duri poco o molto”. L’uomo che ha finanziato la prima mostra di Memphis ha comprato il nome “Memphis” per un milione di lire, perché non ci importava del nome e non capivamo il valore del nome. Allora quell’uomo pensava di possedere tutto Memphis e ci ha chiesto di aumentare la produzione di mobili per aumentare le sue vendite. A quel punto abbiamo dovuto dire di no, perché non avevamo mai voluto fare qualcosa di vendibile. Dunque il gruppo ha deciso di dividersi. Alcuni individualmente sono diventati grandi professionisti facendo delle belle cose, alcune migliori altre peggiori. Tutti noi siamo tornati alla nostre vite.
Sono sempre stato affascinato dal numero di progetti a cui lavora contemporaneamente: design, mobili, fotografia, mostre, testi, progetti architettonici in Europa, Asia…
Veramente adesso lavoro a meno progetti rispetto a un tempo. Sto diventando troppo vecchio. Tutto sta nel trovare cosa è meglio fare. La sera sei vestito per andare a letto e la mattina per andare in ufficio. Ci sono tecniche diverse per vivere ogni attimo della giornata a livelli diversi. Soddisfare la curiosità funziona esattamente allo stesso modo. Onestamente non ho una risposta diretta su questo punto. Posso solo dire che sono curioso, nient’altro. Sono curioso di provare qualsiasi cosa. Ho provato a fare i più incredibili viaggi intorno al mondo con Barbara [Radice, la moglie, N.d.A.]. Siamo andati da soli in Nuova Guinea, sul fiume Sepik, perché ero affascinato dalla possibilità di vedere l’uccello del Paradiso e dal mistero di questo luogo dove ancora oggi puoi trovare una cultura preistorica. Siamo andati molte volte in India. Sono molto curioso. Ero curioso di provare la fotografia. È parte di ciò che facciamo: leggiamo e facciamo, ma non credo che ci debba essere necessariamente una pianificazione.
“Domus” pubblica ogni mese una foto dei suoi viaggi. Pare che tutto sia nato con il suo viaggio in Russia e con la lapide funeraria di Malevic. Da allora abbiamo visto molte altre immagini forti. Ci può parlare della sua esperienza di fotografo?
In generale si può dire che non sia un fotografo professionista. Agisco perché mi piace ciò che faccio. Devo dimostrare che sono capace di fare queste cose e volevo sapere fino a che punto sarei riuscito a penetrare la tecnica della fotografia. Porto sempre con me una Leica M6, che è così vecchia che tutti la stanno abbandonando sotto l’onda delle nuove videocamere digitali. Come sa ho lavorato con Olivetti alla realizzazione del primo calcolatore elettronico in Europa, che era grande più o meno come questa stanza. Il problema non era tanto di design, quanto di decorazione di interni [ride]. A distanza di cinquant’anni abbiamo i computer in tasca, capisce cosa ha prodotto la tecnologia? È una rivoluzione enorme. Credo che dopo una certa età non sia possibile seguire tutti questi cambiamenti alla stessa velocità. Per essere onesto, non so bene cosa significhi “digitale” e non sono neanche capace di fare alcunché con i computer.
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concordo, un grandissimo!
grande maestro!