07 febbraio 2008

INTERVISTA A ETTORE SOTTSASS

 
di hans ulrich obrist

Alla vigilia del suo novantesimo com-pleanno, Sottsass ha parlato con Ulrich Obrist del perché la grande architettura lo faccia piangere, del perché Memphis non potesse essere eterno e del perché lui non sappia destreggiarsi tra i computer che ha progettato...

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Pur essendo più conosciuto come designer e architetto, lei ha sempre affrontato queste discipline formali da artista. Crede di avere più in comune con gli artisti?
Non ho mai pensato di essere un artista come può esserlo un pittore, perché sono un architetto. Quando studiavo architettura ammiravo i grandi maestri del funzionalismo: Le Corbusier, Mies ecc. Allo stesso tempo, però, ero un po’ annoiato dall’idea del funzionalismo. Volevo avere il quadro d’insieme. Mio padre, architetto anche lui, ha studiato a Vienna, poiché a quel tempo la città del Nord Italia da cui proveniva era sotto l’Austria e dunque doveva studiare lì. A Vienna incontrò per caso un pittore serbo, molto anarchico e molto intelligente. Viveva all’ottavo piano di un orribile palazzo della periferia di Torino. Non aveva ascensore perché era un po’ autolesionista e non voleva lussi. Aveva una moglie molto piacevole con una graziosa faccetta tonda che lavorava in teatro. Ricordo che una volta ero seduto a un tavolo con loro. Un tavolo proprio come questo. Stavano fumando, ma fumavano solo mezza sigaretta alla volta, perché in questo modo pensavano di fumare meno, e comunque andavano avanti a fumare finché le loro mani si scolorivano. Questo simpatico signore era molto romantico ma anche molto pittoresco, secondo me. Per dipingere usava solo le tempere. Si faceva i colori da sé e dipingeva sui fogli di giornale, perché non aveva tanti soldi. Gli piaceva lavorare per terra gettando la pittura sui fogli: una sorta di pittura gestuale che per l’epoca era abbastanza rivoluzionaria, prima di Pollock. Questo pittore aveva viaggiato per tutta l’Europa negli anni venti e trenta, e conosceva tutte le avanguardie di Parigi: i cubisti, i surrealisti, ecc. Mi raccontò molte lunghe storie, soprattutto sui dettagli delle tecniche pittoriche. Mi voleva insegnare che un artista deve seguire la magia, che è una specie di approccio anarchico al momento in cui senti di dover fare qualcosa. Mi ha incoraggiato a pensare attraverso le cose, e non solo sulle cose, perché appena un artista incomincia a pensare il lavoro è finito. Credo che questo abbia avuto una grande influenza sul mio modo di vedere il mondo e sul mio modo di lavorare.

Ettore Sottsass - Ceramica Nilo (Memphis) - 1983 - diametro cm 14, h. cm 31Lei che si oppone all’architettura formale, come preferisce definire questa disciplina?
Se stiamo parlando di architettura, vorrei dire che non sono un architetto industriale. Ho soltanto un piccolo studio con tre persone e non costruiamo grattacieli, ponti immensi o altre cose di ampie dimensioni. La chiamo architettura artigianale. Come mio padre, che era un architetto-artigiano. A casa nostra, dove lavorava, aveva una stanza e passava la notte cancellando gli errori, perché non voleva rifare il disegno da capo. Ovviamente a quei tempi non c’erano i computer. Oggi basta che schiacci qualche bottone e puoi fare un disegno nuovo. Ma a quel tempo o cancellavi gli errori o dovevi rifare il disegno. Mia madre lo aiutava e anche lei passava le notti a cancellare. Ricordo che da bambino vedevo questi due poveracci con una lampada che cancellavano disegni. Eppure lui pensava che un disegno dove puoi vedere le tracce di ciò che è stato cancellato rende meglio l’idea della storia del lavoro, del pensiero che ci sta dietro e del perché sono stati fatti dei cambiamenti. Per un architetto come me che pensa dieci progetti, è già tanto se ne viene realizzato uno. In architettura, se si vuol essere un po’ precisi, bisogna distinguere tra edificio e architettura. In una città, in ogni città, ci sono migliaia di edifici, ma sei fortunato se trovi due architetture, forse. Un’architettura per me non è solo qualcosa di esterno. È il disegno di un luogo dove se entri ti metti a piangere.

Oggigiorno si fanno sempre più mostre in musei e gallerie su designer e architetti. Lei l’ha fatto per decenni. Perché sente il bisogno di mostrare continuamente il suo lavoro?
Ho sempre pensato che probabilmente sono egocentrico, che se voglio imparare devo mostrare quello che faccio. Voglio lanciare il mio lavoro nel mondo e vedere cosa succede. Se c’è una reazione positiva, negativa o se semplicemente non c’è reazione. Credo di poter imparare di più se il mio lavoro è nel mondo. A volte spargi su un tavolo schizzi, disegni e carte perché credi che in tutto questo caos ci sia qualcosa di buono. Ma quando una rivista ti chiede qualcosa da pubblicare devi essere più selettivo. A volte ti accorgi che in questo caos di carte non c’è nulla che valga la pena di pubblicare. O per lo meno devi essere più critico e proiettarti fuori dal tuo lavoro. Credo che questo sia il momento cruciale: quando ti vedi dal di fuori. Per me questo momento sopraggiunge spesso quando valuto se fare una mostra, quindi direi che le mostre hanno avuto un ruolo fondamentale nella mia vita.

Ettore Sottsass - Libreria Carlton (Memphis) - 1981 - cm 190x40x196Memphis è stato nella sua carriera uno dei momenti più significativi. Come si sente ripensando a quel periodo?
Credo che ogni idea molto forte duri molto poco. Il cubismo è durato tre anni e poi è diventato surrealismo e poi un nuovo tipo di cubismo. Ma il cubismo vero non è durato molto. Dato che le idee forti sono tali, non si possono sviluppare. Sono quel che sono. Arrivano come un lampo. Sono lì e poi è finito. Non puoi dire “adesso prendo il lampo, voglio che duri poco o molto”. L’uomo che ha finanziato la prima mostra di Memphis ha comprato il nome “Memphis” per un milione di lire, perché non ci importava del nome e non capivamo il valore del nome. Allora quell’uomo pensava di possedere tutto Memphis e ci ha chiesto di aumentare la produzione di mobili per aumentare le sue vendite. A quel punto abbiamo dovuto dire di no, perché non avevamo mai voluto fare qualcosa di vendibile. Dunque il gruppo ha deciso di dividersi. Alcuni individualmente sono diventati grandi professionisti facendo delle belle cose, alcune migliori altre peggiori. Tutti noi siamo tornati alla nostre vite.

Sono sempre stato affascinato dal numero di progetti a cui lavora contemporaneamente: design, mobili, fotografia, mostre, testi, progetti architettonici in Europa, Asia…
Veramente adesso lavoro a meno progetti rispetto a un tempo. Sto diventando troppo vecchio. Tutto sta nel trovare cosa è meglio fare. La sera sei vestito per andare a letto e la mattina per andare in ufficio. Ci sono tecniche diverse per vivere ogni attimo della giornata a livelli diversi. Soddisfare la curiosità funziona esattamente allo stesso modo. Onestamente non ho una risposta diretta su questo punto. Posso solo dire che sono curioso, nient’altro. Sono curioso di provare qualsiasi cosa. Ho provato a fare i più incredibili viaggi intorno al mondo con Barbara [Radice, la moglie, N.d.A.]. Siamo andati da soli in Nuova Guinea, sul fiume Sepik, perché ero affascinato dalla possibilità di vedere l’uccello del Paradiso e dal mistero di questo luogo dove ancora oggi puoi trovare una cultura preistorica. Siamo andati molte volte in India. Sono molto curioso. Ero curioso di provare la fotografia. È parte di ciò che facciamo: leggiamo e facciamo, ma non credo che ci debba essere necessariamente una pianificazione.
Una vista della mostra a Trieste
“Domus” pubblica ogni mese una foto dei suoi viaggi. Pare che tutto sia nato con il suo viaggio in Russia e con la lapide funeraria di Malevic. Da allora abbiamo visto molte altre immagini forti. Ci può parlare della sua esperienza di fotografo?

In generale si può dire che non sia un fotografo professionista. Agisco perché mi piace ciò che faccio. Devo dimostrare che sono capace di fare queste cose e volevo sapere fino a che punto sarei riuscito a penetrare la tecnica della fotografia. Porto sempre con me una Leica M6, che è così vecchia che tutti la stanno abbandonando sotto l’onda delle nuove videocamere digitali. Come sa ho lavorato con Olivetti alla realizzazione del primo calcolatore elettronico in Europa, che era grande più o meno come questa stanza. Il problema non era tanto di design, quanto di decorazione di interni [ride]. A distanza di cinquant’anni abbiamo i computer in tasca, capisce cosa ha prodotto la tecnologia? È una rivoluzione enorme. Credo che dopo una certa età non sia possibile seguire tutti questi cambiamenti alla stessa velocità. Per essere onesto, non so bene cosa significhi “digitale” e non sono neanche capace di fare alcunché con i computer.

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La mostra a Trieste

hans ulrich obrist

*foto in alto: Ettore Sottsass fotografato da Sergio Fregoso


*intervista tratta da “Ettore Sottsass. Vorrei sapere perché/I wonder why”, a cura di Alessio Bozzer, Beatrice Mascellani e Marco Minuz, Electa, Milano 2007, pp. 113-120

[exibart]

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