Categorie: Personaggi

L’intervista/Giò Marconi

di - 18 Febbraio 2015
Quando ci incontriamo in via Tadino al numero 20, nello spazio che era di Zero (e che oggi è irriconoscibile), Giò Marconi sta prendendo dimestichezza con tasti di luci e citofono. La galleria è un perfetto white cube, ancora zeppo degli attrezzi di lavoro degli artigiani. Lo studio di Giò invece pronto per accogliere ospiti. Lui, istrionico padrone di casa, ci guida alla scoperta dei nuovi ambienti, magazzino compreso, e in realtà questa intervista comincia ben prima che io inizi a fargli le mie 25 domande, come gli anni della sua galleria. Per voi, invece, parte da qui.
Cambiare spazio dopo 25 anni può essere abbastanza entusiasmante o preoccupante. Che effetto ti fa essere qui?
«Sono molto contento di dare un altro spazio agli artisti con cui da tanti anni lavoro, da Jhon Bock a Tobias Rehberger: qui loro troveranno un’altra scommessa, un’altra architettura. Per me era importante anche dare una fisicità diversa al mio spazio dopo tanto tempo».
Ti è venuta subito l’idea di trasferirti qui quando ha saputo che Zero se ne andava?
«Si, perché lo spazio mi piaceva, ne vedevo il potenziale. E mi piace anche il fatto di essere nello stesso quartiere, nella stessa via, dove non è facile trovare spazi. Poi, anche se i miei ricordi sono vaghi, dobbiamo aggiungere che questo era magazzino per la clientela di mio padre [Giorgio Marconi n.d.r.] negli anni ’70, ed è stato anche spazio per feste che si facevano qui dopo gli opening, con un vecchio juke box che è ancora a casa sua».
Hai scelto Kuehn Malvezzi perché volevi restare idealmente vicino a via Tadino 15?
«Simona Malvezzi è una vecchia amica che conosco dal liceo, e ci siamo rincontrati dopo la loro partecipazione a Documenta. Le avevo fatto fare il restyling di via Tadino 15 e poi, insieme a loro e Chris Rehberger [fratello di Tobias n.d.r.], questo progetto è venuto quasi spontaneamente, compresa la nuova grafica. Anche l’idea delle sedute per il pubblico che abbiamo ricreato qui sui tre gradini nella prima sala è stata una conseguenza della loro proposta a Kassel. Perché alle mostre non c’è mai la possibilità di sedersi e prenderle con un po’ di calma».
La data di apertura è il 19 febbraio: c’è un motivo particolare?
«Casualissima. È pure Carnevale a Milano!».
Qualcuno ti avrà detto che avrebbe fatto meglio ad inaugurare nella settimana di Miart, o no?
«Troppo in là, aspettare fino ad allora non aveva senso. Ci saranno dei cambiamenti nella mostra probabilmente, magari faremo un re-opening per la fiera. E poi il 19 ci sarà anche una performance di Hans Berg: suonerà per un’ora».
A proposito di Miart: sei un gallerista storico di Milano: come hai visto cambiare la città?
«In tante cose: gallerie che hanno chiuso, ma anche tante aperture, tante cresciute, la nascita di Lambrate, di Lia Rumma nella sua nuova sede. Sono successe tante cose positive, anche se in tempi lunghi. Non avremo un museo, però abbiamo Prada, abbiamo HangarBicocca con il suo lento inizio che oggi è invece la nostra kunsthalle, il PAC che ha finalmente un comitato scientifico e speriamo che si arrivi ad una figura curatoriale vera e che non sia sempre in mano a chi c’è a tempi alterni al Comune. Poi la Triennale con la direzione di Bonaspetti, il Museo delle Culture, Museo Armani, Fondazione Feltrinelli. Mi pare che Milano si stia riprendendo la sua centralità».
E il sistema dell’arte?
«Anche questo direi, molto positivamente».
Hai scelto di stare a Milano e di non aprire altre sedi in città di altri Paesi più “vivi” per il contemporaneo. Perché?
«Non ho questa necessità: mi piace fare fiere, ma non necessariamente devo trasferirmi. Milano è il luogo dove lavoro, vivo e voglio stare. Sento mio questo spazio e non ho mai pensato di fare una galleria gigante: per questo ci sono i musei, con i quali si collabora. A me interessa uno spazio flessibile, e qui è possibile».
Torniamo alle origini: quando hai deciso che avresti fatto il gallerista?
«[Ride] Volevo fare il fotografo, ma ho sempre vissuto con artisti in giro per casa. Ho studiato in California, ci ho provato, ma poi ho deciso che mi sarebbe piaciuto portare avanti il percorso di mio padre, che all’epoca aveva anche il negozio di cornici».
Che ti ha detto tuo padre quando gliel’hai annunciato e che consigli ha dato?
«[Ride] Mi ha fatto fare gavetta: costruire cornici, e andare a casa dei collezionisti a installare opere».
Domanda freudiana: che rapporto avete?
«Ottimo. Come in tutti i rapporti ognuno ha le sue idee, si discute, ma va bene così. Mio padre non molla e ancora oggi si occupa personalmente di tutta la sua storia, dei suoi artisti. La bellezza di questo lavoro è che non c’è bisogno di andare in pensione».
Cosa ricordi della tua prima mostra come Giò Marconi?
«Avevo uno spazio in via Tadino 17. Una grande emozione, con un artista che oggi non lavora più».
Qual è stata invece quella che ti ha cambiato la vita?
«Martin Kippenberger: una bellissima esperienza con un artista pazzo che voleva tutti e tre i piani di via Tadino 15, compreso l’ascensore. Comprammo scarpe, utilizzammo vecchie basi e tante altre cose perché in realtà non si era reso conto dello spazio che mi aveva chiesto e che io gli mettevo a disposizione, per cui non aveva abbastanza opere: le costruimmo lì, sul momento».
E la mostra storica degli ultimi 50 anni?
«Difficile. Ma probabilmente “When Attitudes become form”: la sua riproposizione da Prada mi ha lasciato esterrefatto, forse perché non la vidi nel ’68».
Tra le varie generazioni che hai visto in scena in questi 25 anni, chi è stato secondo te l’artista più sopravvalutato?
«Julian Schnabel, direi. Confrontato agli americani del suo stesso periodo non ha particolare potenza».
E quello che invece non ha avuto il successo che avrebbe meritato?
«Una figura come Enrico Baj penso meriterebbe una riscoperta come stanno vivendo Bonalumi o Castellani».
Sei tra i galleristi italiani più presenti nelle migliori fiere del mondo: c’è un Paese-sistema-modello a cui guardi?
«Basilea e Miami Basel: con Basel posso guardare a tutto il sistema europeo, e a Miami mostrare tutto alla restante parte del globo occidentale. In futuro mi piacerebbe fare anche Art Basel Hong Kong. Quest’anno farò anche la fiera di Colonia dividendo lo spazio con una galleria di Vienna con pezzi di Kerstin Brätsch».
Chi sono gli artisti più interessanti sulla piazza oggi?
«Avery Singer e Jamian Juliano Villani».
Che cosa ti aspetti da Expo?
«Non ne ho idea, ma vedo una grande offerta. Vedo una città più democratica, forse più umana. Nonostante sia sempre forte l’impronta del lusso».
La sede di via Tadino 20 è composta da un’unica grande sala: non sarà poco?
«Non credo, sarà flessibile. Lo spazio (17 metri per 7) può essere diviso come si vuole e il fatto di avere meno metri quadrati mi aiuta ad evitare le dispersioni che c’erano in via Tadino 15».
Cosa ami di più di questo lavoro?
«Il dialogo con gli artisti».
E qual è il tuo rapporto con gli artisti? Come li approcci?
«Vado in studio, guardo, si chiacchiera. Molto semplicemente per capire se c’è feeling anche tra artista e opera».
Cosa è necessario per essere un bravo gallerista?
«[Ride] Avere la pazienza. E idee».
Un desiderio per il futuro?
«Magari un altro spazio a Milano, magari non centrale. Vedremo».
Se fossi un giovane artista, su quale gallerista punteresti?
«Su di me, chiaramente! [ride]».

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