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L’intervista/Mario Airò | Come non imparare l’arte e non metterla da parte |

di - 28 Giugno 2012

Da alcuni anni Mario Airò affianca all’attività artistica il lavoro come docente, presso il Laboratorio di Arte dello IUAV di Venezia e nel Corso di Arti visive della NABA di Milano. Ecco la sua esperienza.

È corretto ritenere l’attività di insegnamento come una parte integrante del lavoro artistico?

«Credo che nel laboratorio allo Iuav e alla NABA il lavoro artistico sia quello degli studenti: io cerco di spogliarmi dei miei panni di artista e affrontare a tutto campo e con la massima apertura mentale le suggestioni e le potenzialità messe in campo dai giovani artisti nelle loro propensioni. E cerco di spingerli a cercar di ottenere il massimo risultato per quella cosa lì, che hanno in mente. Non faccio conoscere loro il mio lavoro, prediligo portarli a conoscere cose eminenti che siano nelle loro corde individuali. Jimmie Durham iniziava sempre le sue lezioni allo Iuav dicendo che l’arte non si può insegnare: credo anch’io che sia difficile far diventare qualcosa parte di noi in modo tale da diventare parte del nostro processo immaginativo e credo che possa avvenire solo tramite noi stessi. Le figure che incontriamo possono solo condurci dove, magari, non saremmo mai giunti. Come Virgilio con Dante. Ma lì poi è solo la nostra esperienza della cosa che può modificarci».

All’Accademia di Brera ha avuto come insegnante Luciano Fabro: cosa ricorda dell’esperienza come allievo di una delle figure cardine dell’Arte Povera?

«Luciano Fabro era una personalità artistica molto complessa. Aveva un background di formazione filosofica e nel suo ragionare sull’arte questa attitudine era molto presente. Prima di andare all’Accademia ero stato per un anno alla facoltà di filosofia, per cui il suo pensiero mi risultava congeniale. Aveva anche un’intensità particolare nell’osservazione e ci spronava a sviluppare le nostre capacità di guardare i pensieri in atto nelle opere. Era molto rispettoso di qualsiasi cosa sottoponessimo al suo sguardo e ci trattava da artisti (“in proiezione”, mi sembra dicesse), spronandoci a maturare la più alta consapevolezza del nostro operare. Insisteva molto nelle sue riflessioni sull’artista, figura pubblica, coi suoi diritti – da difendere – i suoi doveri, verso l’arte, e responsabilità antropologiche».

Con la realizzazione di Penso con le mie ginocchia, il laboratorio a cui ha dato vita insieme a Diego Perrone e Stefano Dugnani, dà la possibilità ad artisti sotto i trent’anni di trovare un luogo di scambio e di formazione reale, fuori dalle aule scolastiche. Quale pensa sia oggi il limite maggiore delle istituzioni accademiche?

«Penso con le mie ginocchia vorrebbe concentrarsi su quello spazio che sta tra l’idea iniziale e l’opera finale. Sull’interregno dove le idee da possibili trovano la forma idonea per diventare atto. Questa parte del lavoro è quella che di solito resta in ombra, ridotta a rango di mera esecuzione. Invece per noi è quello lo spazio dove la qualità reale si affina e ha la possibilità di crescere e manifestarsi. Nelle scuole, rispetto a quando l’abbiamo frequentata noi, è migliorata l’offerta relativa alla teoria e all’informazione sugli sviluppi più recenti dell’arte, per cui abbiamo giovani più consci del sistema dell’arte attuale e delle sue dinamiche. Le loro capacità operative, invece, risentono della mancanza di spazi in cui operare e di attività continuative. In più, l’enorme massa di informazioni che hanno a disposizione, invece di facilitarli, spesso diventa bagaglio ingombrante».

Quali sono le difficoltà che trova nei suoi allievi che muovono i primi passi come professionisti?

«È da tutti sentito molto forte il sistema dell’arte e tendono a immaginare di dover partecipare per forza a quel workshop o a quell’altro per essere riconosciuti. Mi sembra che il mondo abbia un volume più assordante di una volta e che la sua voce sia molto presente anche negli studi, andando a interagire con le possibilità della ricerca in atto».

In che modo la sua attività di docente ha influenzato la sua pratica artistica?

«Stare con giovani agli inizi della loro attività costringe a un’attenzione agli aspetti intellettuali, ideali, culturali dell’arte, oltre che a un continuo esame di coscienza e di rielaborazione dei valori in atto. Credo che questo continuo riflettere aiuti a tenere fresco il proprio linguaggio e intensa la voglia di sperimentazione».

A volte coinvolge attivamente i suoi allievi in progetti prestigiosi, come in Atlantide, l’opera realizzata un anno fa in occasione di Terre Vulnerabili all’Hangar Bicocca di Milano. Come rispondono gli allievi a proposte del genere?

«Tocca un tasto dolente: in quell’occasione non ho avuto il riscontro che mi aspettavo. Solo uno dei dieci o dodici giovani artisti che avevo invitato ha risposto realizzando qualcosa: Marcello Spada. È riuscito a trovare un modo di interagire con la situazione creata da Atlantide intelligente e arguto, con un’opera composta da un distributore di palline rimbalzine e un cubo di cartone che si muoveva scuotendosi su se stesso. Credo che gli altri siano rimasti intimoriti dalla presenza della macchina realizzata da me, che è stata vissuta come troppo ingombrante e asfissiante. Però la sfida era questa e pensare a un’arte in rivoluzione permanente da ogni dogma».

*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 77. Te lo sei perso? Abbonati!

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