Categorie: Personaggi

Speciale Biennale/Parlano gli artisti del Padiglione Italia

di - 19 Marzo 2013
Cominciamo dal tuo progetto per il Padiglione Italia. Cosa farai?
«È stato chiesto ad ognuno di noi un testo da scrivere sull’argomento, legato al tema curatoriale Autobiografia e Immaginario collettivo, che riguarda me e Maloberti. Abbiamo una grande sala, che divideremo in due».
Hai già un’idea?
«Ci sto riflettendo in questi giorni, ma penso che si tratterà di un’architettura simile a quelle che ho realizzato in diverse occasioni, come nell’ultima mostra a Roma, presso la galleria Sales. Un’opera legata alla mia memoria individuale, che diventa collettiva quando viene presentata al pubblico».

La memoria è un tema fondamentale della tua ricerca?
«Segni e codici che elaboro attraverso immagini e oggetti sono caratteri imprescindibili del mio lavoro, che scaturisce dai miei ricordi di infanzia nell’Italia degli anni Settanta, che oggi vengono riscoperti in varie chiavi».
Come definiresti quell’epoca?
«Era un momento molto forte di produzione di idee e conflitti, che arrivano fino ad oggi come un’onda lunga».
Recentemente la dimensione autobiografica emerge in maniera dichiarata, mentre prima appariva più sfumata. Come mai?
«Forse ha preso più forza anche grazie al contesto sociale del mondo dell’arte, che chiede agli artisti un impegno civile, quasi politico, che paga molto. Sono più consapevole e sicuro, e quindi sono più interessato a dichiarare questo aspetto della mia ricerca, a definirne le caratteristiche. Penso al lavoro che ho fatto su Ustica, presentata a Bologna: ricordo che due giorni dopo la tragedia, il 28 o il 29 giugno 1980, ho visto su un giornale l’immagine di un corpo che emergeva dal mare nero. Allora pensai che si trattava degli abissi della mia famiglia, e solo dopo ho scoperto che si trattava di quelli del mio Paese, l’Italia».

Avevi un rapporto forte con i tuoi genitori?
«Per la mia generazione la famiglia era la principale, se non unica, fonte di educazione e di informazione sul mondo. Oggi ci sono più fonti, i figli possono scappare dai genitori. Allora ti portavi addosso la temperatura di casa tua, che era quella dell’intero Paese, che era però un grande punto di riferimento culturale».
L’opera in Biennale sarà un’installazione o una scultura?
«Penso ad un’opera simile alla Rotonda, la replica del Mausoleo di Teodorico a Ravenna che ho esposto alla Pescheria di Pesaro nel 2010. Era una fata morgana, un frammento di architettura che fa parte della mia memoria, un’immagine che ho cercato di rimettere in piedi attaccando pezzi qua e là, come un collage tridimensionale».

C’è un altro elemento che caratterizza il tuo lavoro recente: la luce proveniente da tubi al neon viola e inquietante, che illumina le tue opere. Cosa significa?
«Questi neon mi piacciono molto, tanto che li ho usati anche nei bagni di casa mia. Sono utilizzati negli acquari, ma non sono legati alla luce piena e accecante del mondo tropicale. Estrapolata dal suo contesto, la natura ha delle regole brutte, come ho sempre pensato. Credo che li userò anche in Biennale per illuminare il mio lavoro. È una luce che ha un timbro particolare, psichedelico. Mi piace molto questo colore violaceo. I miei primi specchi avevano lo stesso colore».
Anche questa luce viene dalla tua memoria infantile?
«La casa dove sono cresciuto da bambino era a pianoterra, ed io tenevo sempre gli scuri chiusi: per anni ho vissuto solo con la luce dei neon. È una luce da pesci ma anche da rettili, da animali a sangue freddo. Forse mi piace proprio per questo».

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