Le immagini che camminano di Marisa Merz

di - 25 Maggio 2012

“Disegnare disegnare ridisegnare il pensiero immagine che cammina”, la Fondazione Merz non poteva scegliere titolo migliore per introdurre la sua prima grande mostra (fino al 16.IX.2012) dedicata a Marisa Merz (Torino, 1926). Lo stesso verbo ripetuto tre volte senza neanche la pausa di una virgola, la ripetizione della medesima azione, restituisce perfettamente il senso di un lavoro che va avanti da oltre quarant’anni, senza mai rivelare un segno di stanchezza o un cedimento.

L’appuntamento torinese è l’ideale conclusione del percorso iniziato un anno fa presso la Fondazione Querini Stampalia di Venezia: «Mentre accompagnavo Marisa nella costruzione della mostra alla Querini – ha raccontato Chiara Bertola, durante l’incontro sull’artista organizzato il 14 maggio al Circolo dei Lettori di Torino – mi sono resa conto che avrei dovuto rinunciare alle mie solite categorie temporali. Il lavoro della Merz può apparire molto lento e subire improvvise accelerazioni dovute ad intuizioni immediate. È un flusso continuo fatto di gesti semplici eppure dirompenti».

Forse è questo il motivo per cui le opere a Torino sono presentate senza il tentativo di metterle in ordine per non correre il rischio di offrire una qualsiasi lettura analitica o predeterminata. La mostra non ha un curatore ed è stata allestita dall’artista stessa, che è intervenuta a modificare alcune opere fino all’ultimo momento. Chi conosce Marisa Merz sa quanto sia difficile coinvolgerla in un progetto espositivo. Questa sua timidezza è dovuta essenzialmente al fatto che quando un’opera entra all’interno di una mostra, in teoria non può essere più toccata e deve rimanere identica dall’inizio alla fine della manifestazione: una condizione che la Merz ha sempre guardato con sospetto. Le sue sculture sono il frutto di manipolazioni continue, avvenute a distanza di anni, i suoi meravigliosi disegni, che raggiungono dimensioni incredibili per una donna minuta come lei, sono il risultato di numerosi passaggi di colore, gesti e ripensamenti, che li fanno apparire sempre non finiti e in fase di elaborazione. Per raccontare questa particolare natura del lavoro della Merz, nello stesso incontro del 14 maggio Ester Coen ha citato un brano delle Metamorfosi di Ovidio, in cui Deucalione e Pirra gettano pietre alle loro spalle per dare origine al nuovo genere umano dopo il diluvio universale: «E i sassi…perdettero via via la durezza e il rigore, si fecero molli col tempo e assunsero, molli, una forma…e li diresti abbozzati nel marmo, piuttosto imprecisi e assai somiglianti a rozze sculture» (Libro I).

Nel lavoro di Marisa Merz è difficile decidere quale opera sia venuta prima e quale dopo, perché spesso si tratta degli stessi elementi che vengono disposti in un ordine diverso e costituiscono un richiamo continuo ad esperienze del passato, ringiovanite da una nuova intuizione. Prendiamo il caso delle Scarpette. L’artista nel 1968 intreccia con il nylon due ballerine in occasione della mostra “Arte Povera + Azioni Povere” ad Amalfi, ma le scarpe non entreranno mai all’interno degli Arsenali. Appariranno soltanto in fotografie scattate da Claudio Abate sulla spiaggia, bagnate dalle onde. Nel 1975 Marisa le indossa alla Galleria l’Attico di Fabio Sargentini, seduta su una sedia con i piedi poggiati al muro sotto una finestra: proprio in quel punto (il migliore per guardare il passaggio della luna) chiederà a Mario di fissarle con un chiodo. Nel 2011 le stesse scarpette riappaiono all’interno di una teca sopra uno specchio tra le opere antiche della Querini Stampali, mentre oggi alla Fondazione Merz si scorgono sospese sull’angolo della parete più commovente della mostra, in cui è stato portato avanti il tentativo di ricostruire parte dell’esposizione avvenuta nel 1994 al Centre Pompidou. L’oggetto è sempre lo stesso, ma il suo senso cambia secondo il luogo, l’occasione, il tempo e lo sguardo dell’artista. Per questo è praticamente inutile tentare di attribuire una datazione a molte delle opere di Marisa Merz. Il suo è un lavoro tutto contemporaneo, “un’immagine che cammina”, come recita il titolo della mostra. E allora, se è difficile mettere in ordine una storia, si può tentare di raccontarne almeno i temi e descriverne la materia, mai scelta a caso.

Come accade a quasi tutti gli artisti dell’Arte Povera, anche il lavoro della Merz è ‘limitato’ a pochi elementi che si ripetono di continuo: quei volti misteriosi, che Richard Flood non ha esitato a definire suoi “autoritratti”, in cui spesso si scorgono due occhi languidi e una bocca che accenna ad un timido bacio; le forme geometriche delle sue trame intrecciate ai ferri, ora cerchi ora triangoli ora piccoli quadrati, un tempo fatti di nylon, poi sostituito dal filo di rame; il ferro e il legno, utilizzati essenzialmente per creare strutture di sostegno e diaframmi dietro cui nascondere i propri disegni. Di fronte ad ogni sua opera, si avverte sempre la necessità di avvicinare gli occhi e guardarne i dettagli più nascosti, piccoli segni o linee, riccioli di rame, paglia incollata su una tela, il cucchiaio messo a rappresentare un occhio, un triangolo di piombo che gioca con lo zampillo di una fontana. Non è ancora giunto il tempo per trasformare la ricerca di Marisa Merz in una grande epopea di argomenti e immagini che parlano del mondo femminile, del ruolo della donna nella storia dell’arte e nel focolare domestico: è ancora il momento di guardare le sue opere con la disponibilità alla sorpresa e la curiosità di scoprire possibili corrispondenze che mai avremmo sospettato, come quella tra un triangolo di Kandinsky e un’altalena.

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