«Il giardino delle sculture era stato riscoperto dai surrealisti dopo la guerra, e dopo quattro secoli di oblio quasi totale. Gli abitanti dei dintorni lo consideravano come il teatro di atti sessuali estremi che sarebbero stati in seguito negati o cancellati dalla famiglia Orsini». Non è un brano tratto da un racconto di Borges, ma un frammento di Bomarzo, il video dall’artista francese Laurent Grasso che introduce la sua impeccabile antologica “Uraniborg”, aperta fino al 23 settembre al Jeu de Paume di Parigi, da dove proseguirà per il museo d’arte contemporanea di Montreal, in Canada. Una mostra dove l’allestimento è stato concepito come un dispositivo narrativo, una sorta di cannocchiale prospettico dove visione e conoscenza si fondono in un percorso esperienziale perfettamente congegnato, che ci porta a riflettere sul rapporto tra visione e partecipazione.
Invitati a percorrere un lungo corridoio che collega diverse stanze che separano uno spazio espositivo in penombra, Grasso ha progettato una mostra divisa in cinque capitoli, che corrispondono ad altrettante opere video, realizzate dal 2008 ad oggi. Lungo le pareti si aprono alcune feritoie rettangolari, dalle quali si vedono le proiezioni seguite da sale allestite con opere tridimensionali di carattere diverso (neon, dipinti, sculture, libri e documenti) dove il visitatore può entrare per poterle osservare da vicino. Un labirinto della conoscenza che si apre appunto con Bomarzo, girato nel 2011 all’interno del noto “Parco dei Mostri” come un documentario degli anni Settanta, e accompagnato da una sala con calchi di sculture classiche e fotografie che mostrano personaggi come Salvator Dalì e Marcel Duchamp in mezzo a tartarughe ed elefanti di pietra.
Il genius loci sospeso tra realtà e leggenda, mistero e memoria prosegue nella sezione successiva, dedicata alla città eterna e introdotta da Les Oiseaux (2008), un video dove si assiste a pirotecnici voli di storni sopra la Città del Vaticano al tramonto. Gli stessi voli, che i sacerdoti romani interpretavano come presagi, vengono riportati dall’artista in Studies into the past, una serie di disegni e tele realizzate con le stesse tecniche del Rinascimento, quasi a voler comporre una falsa memoria storica. Qui concentrata sul rapporto tra il potere papale e l’astronomia, attraverso la figura di Galileo Galilei e il suo trattato Sidereus Nuncius, pubblicato nel 1610, al quale Grasso dedica una serie di opere esposte in mostra.
Più politico il messaggio di The Silent Movie (2010), girato in Spagna e dedicato alle architetture militari sulla costa di Cartaghena, camuffate nel paesaggio mediterraneo. Un senso di silenziosa attesa di un nemico invisibile che ritroviamo nella posa del falcone prima di spiccare il volo, documentato in soggettiva nel video On Air (2009) e accompagnato da trattati di falconeria, miniature rinascimentali e dall’immagine di uno zootropio, una macchina inventata nel 1887 dal sociologo francese Etienne-Jules Marey per studiare il volo dei gabbiani. Infine, il percorso si conclude con un altro luogo misterioso, il castello costruito nel 1576 dal re Federico II sull’isola di Van, tra Svezia e Danimarca. Si tratta del più grande osservatorio astronomico d’Europa, dove l’astronomo Tycho Brahe aveva trascorso vent’anni governando l’isola come un tiranno, prima di essere cacciato dalla popolazione che aveva poi raso al suolo l’edificio. Parliamo di Uraniborg, che da il nome al video realizzato nel 2012 sull’isola, alla ricerca dell’osservatorio: l’ennesima prova della capacità di Grasso di utilizzare la stessa struttura narrativa senza mai essere monotono.
«Cerco di produrre esperienze, perché le vere esperienze sono rare», spiega l’artista. Ci domandiamo come mai i nostri artisti della stessa generazione (Grasso è nato nel 1972) non riescano a raggiungere la stessa complessità, per avvolgere lo spettatore con informazioni distillate ed essenziali, fino a condurlo al cuore dell’opera, all’interno di un discorso dove nulla è casuale e ogni elemento, nella sua essenzialità, è funzionale al risultato. Un livello di consapevolezza che vorremmo riscontrare anche negli artisti italiani che affrontano troppo tardi le prime esperienze museali pubbliche senza il sostegno di uno Stato capace di valorizzare i propri talenti più promettenti.
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