Napoli, le voci di dentro e le voci di fuori

di - 15 Aprile 2014

La teoria e la pratica artistica hanno interpretato il confronto tra concetto e materia come una prolifica causa efficiente. Una doppia personale, allora, è l’occasione migliore per fruire delle difformità dei linguaggi creativi. Da una parte la città tenta di emergere tra oscurità e oggetti recuperati, dall’altra il soggetto si richiude nell’intimità e nel colore.
Le mostre parallele di Laure Prouvost e Betty Bee, rientrano nell’ambito del Progetto XXI, il programma di collaborazione tra il museo MADRE e la Fondazione Morra Greco di Napoli, avviato nel 2013. La stagione espositiva inizia con un doppio percorso fedele alla linea: evidenziare le divergenze e le affinità tra sperimentazioni artistiche appartenenti a diversi sfondi sociali e culturali. Laure Prouvost (Lille, 1978) si è artisticamente formata alla Goldsmiths University of London, sponsor degli Young British Artists, oltre che fucina di vincitori del Turner Prize, nel novero dei quali, figura anche Prouvost. Betty Bee (Napoli, 1963) non ha mai fatto mistero dell’infanzia difficile, vissuta nel quartiere Ponticelli, periferia orientale della città. Nella sua arte si leggono chiaramente le tracce della biografia, un motivo ispiratore che è formativo e ossessivo. Insomma, due personalità creative apparentemente agli antipodi che, alla prova della mostra, rivelano risultati inaspettati.

Bisogna dire che gli spazi della Fondazione Morra Greco, nel Palazzo dei principi Caracciolo d’Avellino in pieno centro storico, lasciano percepire una stratificazione vertiginosa. Il loro essere tutt’altro che muri silenziosi è un’arma espositiva a doppio taglio e non è impresa facile armonizzare il dialogo tra opere e contesto. “Polpomotorino”, a cura di Francesca Boenzi, è la mostra di Laure Prouvost, frutto di una residenza d’artista a Napoli, tra 2011 e 2012, ed è stata allestita nel piano interrato della galleria. “Second Life”, di Betty Bee, è ospitata negli ambienti luminosi del primo piano. Invece, al piano terra, nella sala adiacente a quella del muro di grafite, testamento spirituale di Sol Lewitt, c’è il tavolo apparecchiato per tutti, per ricordarci che, tra astrazione e narrazione, bisogna pur sussistere.

Abbandonando la limpidezza dei contorni tipica del mondo illuminato, si accede al piano interrato, nell’oscurità tentacolare e sub-urbana. Una musica da discoteca dei tardi anni ’90 gracchiata da qualche autoradio, il silenzio rotto da un respiro affannoso, poi, la sinfonia disturbante dei clacson. Alcune immagini scorrono velocemente sullo schermo: paesaggio marino da cartolina, mano che accarezza tessuto, motorini tra automobili, polipo gorgogliante. Nella sala successiva, una colonna di circa quattro metri, interamente composta da pezzi di ciclomotori. Frecce e fari di posizione che si accendono e spengono, proiettando brevi fasci di luce in direzioni casuali. Dalla base della colonna realizzata con pezzi di motorini, partono alcune postazioni formate da sellini e schermi televisivi. Quello che sembrava un elemento architettonico, in realtà, è un moloch paradossale, l’ibridazione tra l’ancestrale e l’artificiale, una manifestazione del terrore latente esperito dal soggetto, al cospetto del mondo che egli stesso ha creato. Merito a Laure Prouvost per aver assemblato, in forme spettacolari, dai forti accenti barocchi, ciò che già si conosce. La fantascienza, il marketing e l’urbanistica hanno reso l’alienazione dell’uomo moderno un luogo comune, al pari dei motorini sguizzanti tra gli stretti vicoli della città partenopea.

Se “Polpomotorino” è tutta rivolta al viluppo insano tra mondo interiore ed esteriore, “Second Life” si concentra sul rapporto tra il soggetto e se stesso, come un’opera di autoanalisi. Un ambito che agisce, prevalentemente, nell’inconscio dovrebbe manifestarsi attraverso forme umbratili. Qui, invece, è tutto portato alla luce. Le cinque ampie opere di Betty Bee non si lasciano dominare dagli alti soffitti degli ambienti al piano superiore e, grazie alle campiture di colore virato all’estremo, rivaleggiano con l’illuminazione artificiale. L’inserimento di elementi estranei, dal fil di ferro alle perline, serve a rinforzare il tema dell’interiore, che spazia dalle sfumature delle sensazioni alle emozioni della speranza. Sfacciate nei colori accesi, provocatorie nelle forme rigogliose, queste opere raggiungono perfettamente l’espressione del pop-kitsch, da sempre ricercato dall’esuberante artista napoletana.
Tra voci di dentro e voci di fuori: il dualismo eterno dell’arte, riconciliato in una mostra.

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