In Italia Patrick Mimran (Parigi, 1956) lo ricordiamo per una bella mostra alla Fondazione Querini Stampalia, ma anche per i suoi billboard. A Venezia ne sono comparsi due: uno con su scritto Art is not where you think you’re going to find it, in occasione dell’ultima Biennale (estate 2003), sulla facciata del museo Ca’ Pesaro; un secondo, poco dopo, presso il ponte dell’Accademia, in cui si replicava con l’aggiunta, quanto mai maramalda, tra “is” e “not”, della sola parola “still”. “Non voglio dare lezioni, ma non voglio neanche” sibila l’artista “che la gente visiti le gallerie d’arte prendendo per oro colato tutto quello che vede. Talvolta, vi entra come entrasse in un tempio”.
Anche Explanation kills art, la frase a corredo di questa personale romana, benché per ora campeggi nero su bianco soltanto sulle t-shirt disponibili in galleria, è stata concepita per stare in alto, al terzo piano del palazzo in via Tor di Nona, su un grande striscione ben visibile dal Lungotevere.
Ed è lassù, pazienti, che aspettiamo di incrociare con lo sguardo l’allegro monito.
Insomma, poche parole -ma pungenti– e ancor meno spiegazioni, senza dimenticare che Mimran è soprattutto una spumeggiante fabbrica di immagini. Nella galleria romana, a raccontare quant’è patinato il paesaggio umano contemporaneo espone due serie di fotografie, Vertigine (che dà il titolo alla personale) e Babel.TV, tratte da celebri videoinstallazioni. Squillanti visioni-giocattolo che prendono in esame, con giuliva puntualità e nitore cartellonistico, sessualità e comunicazione nell’epoca dell’homo videns.
Brulicano e si stagliano un po’ ovunque corpi piccoli come insetti, e bocche viceversa grosse e carnose –eppure tutt’altro che calde– che tanto parlano ma che, ovviamente, poco, anzi nulla, dicono. Eccoli, gli uni, a bordo di scarpe maculate e appuntite come tigri, ma anche costipati dentro siringhe grandi come ascensori (buoni solo per scendere a terra); ecco le altre, le bocche, coloratissime, ripetute e ravvicinate come a cancellare del tutto, a colpi di rossetto e di parole al vento, l’espressività silenziosa del volto.
E ancora, immenso e fragile, ecco il corpo della donna, intorno al quale gravita tutta un’epopea del pruriginoso metropolitano fatta di imperterriti pupazzetti in marcia.
A convincere, nell’ostentazione post pop di una verve scabrosa e infantile, è proprio la felice gratuità e l’innocente radicalismo –l’antigrazioso in technicolor, come nei primi film di Almodovar– di queste immagini smaglianti e totalmente prive di aura.
pericle guaglianone
mostra visitata il 13 aprile 2005
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