Categorie: rubrica curatori

CURATORIAL PRACTISES

di - 9 Maggio 2016
Nadim Samman è uno dei più promettenti tra i giovani curatori internazionali. I suoi progetti includono la curatela di artisti russi di arte moderna e contemporanea; come Igor Makarevich, Alexander Ponomarev e Andrei Tarkovsky. Recentemente ha lavorato a “RARE EARTH,” co-curata con Boris Ondreička, alla Thyssen-Bornemisza Contemporary-Augarten, di Vienna e al momento è curatore della 5th Moscow International Biennale for Young Art e co-Direttore di Import Projects a Berlino.
Sei il curatore della 5° Moscow International Biennale for Young Art, potresti introdurci l’arte post-Sovietica ed il suo progetto curatoriale?
«La Biennale di Mosca è stata annunciata come ‘internazionale’, ma questo è un concetto controverso. La mia ricerca accademica (prevalentemente basata sulla ricezione critica degli artisti russi emigrati negli anni ‘80 e negli anni ’90 a New York) mi ha aiutato a comprendere la posta in gioco della storia dell’arte russa. Tuttavia, la biennale in sé non si concentra su questioni di identità nazionale. Il suo titolo DEEP INSIDE mette in mostra le collisioni artistiche con il concetto di ‘‘disincagliare’. Il Modernismo ha cercato di colpire a fondo il punto zero della pittura, le strutture di base della psicologia umana; le leggi storiche e quelle attuali della scienza economica, generando illusioni. Se noi prendessimo una lente antropomorfa, si tratterebbe di una marea dell’Oceano Pacifico in grado di ricevere un afflusso di particelle radioattive e polimeri a base di petrolio, o una montagna turbata da iniezioni in pressione violente di acqua e sabbia. Tutto è stato sperimentato; tutto è stato sondato. Questo è il terreno accidentato su cui i contemporanei sviluppano la vita culturale. Questo è ciò che la mostra tratta in modo articolato».

Oggi è indispensabile proiettare le pratiche curatoriali verso un’analisi tecnologica nella quale collimino elementi legati all’ambiente, all’identità ed alle comunità, come hai saputo brillantemente sviluppare nei tuoi progetti. Secondo te come sono cambiate le pratiche curatoriali negli ultimi anni?
«Una volta il mondo dell’arte era felice di lasciare la questione dei ‘new media’ a un ristretto gruppo di persone specializzate e molto asociali. Tuttavia, dal momento dell’avvento dei social media e dell’integrazione più profonda dei dispositivi all’interno di tutta la nostra vita, gli impegni curatoriali con la tecnologia sono aumentati. Il mio programma da Import Projects è sintomatico di questo cambiamento. Oggi, anche mia nonna di ottanta anni utilizza un Ipad e Skype, quindi è del tutto opportuno che coloro che lavorano con la cultura contemporanea si interessino a questa condizione. Se gli artisti e gli intellettuali non si impegneranno in modo critico, gli interessi commerciali di Silicon Valley continueranno a dominare l’immaginario del momento della tecnologica emergente, continuando a definire cosa dovrà significare/fare per noi. Non si dovrebbe lavorare con l’hardware fisico, o anche con il software, per contribuire a plasmare la cultura della tecnologia. Oggi i curatori hanno bisogno di avere più consapevolezza interdisciplinare. La specializzazione è preziosa, ma le complesse interazioni tra i diversi settori intellettuali, scientifici e sociali che caratterizzano la nostra richiesta necessitano che ogni volta i curatori siano agili – con un bagaglio di vasti interessi e di molte capacità – al fine di tenere il passo con gli artisti! Negli ultimi anni c’è stato un grande sforzo per teorizzare la curatela come disciplina intellettuale e professione ben distinta. Anche come disciplina intellettuale, ma ovviamente i processi professionali, che si sovrappongono con le tecniche di gestione utilizzate da altri settori, dovrebbero essere considerati sempre un mezzo per il fine artistico. In questo senso, si tratta di strumenti che un curatore dovrebbe abbandonare e disporre a favore di strategie più ellittiche».

La tua ultima mostra è stata “Desert Now” da Steve Turner a Los Angeles, e comprendeva alcuni dei più interessanti artisti della scena berlinese degli ultimi anni: Julius von Bismarck, Julian Charrière e Felix Kiessling. Puoi raccontarcela?
«Ho curato la mostra con mia moglie e la mia solida collaboratrice Anja Henckel. Abbiamo portato i tre artisti citati da Berlino negli Stati Uniti, facendoli interagire con il paesaggio americano così preponderante nell’arte storicizzata. Il risultato della mostra è stato assimilare esteticamente la forma di un ‘museo’ nel deserto. La mostra è stata una fusione di elementi diversi, in parte profani, e di mediazioni della ‘natura’, che contenevano sia l’umorismo che la tragedia (quest’ultima, in particolare, nella materia di eredità del test atomico). Era un nuovo lavoro per gli artisti e, credo, sia stata una visione artistica molto convincente».
Cosa hanno fatto secondo te le Istituzioni per soddisfare le esigenze di un pubblico d’arte sempre più esigente? E quali sono le metodologie che preferisci e i modelli che utilizzi in questi ultimi anni? Puoi farci degli esempi virtuosi a Berlino o in giro nel mondo?
«L’audience d’arte contemporanea è cresciuta negli ultimi anni, anche grazie ai musei ‘brands’ (come la Tate e il Guggenheim) perseguendo il pubblico dei turisti internazionali. Inoltre, proliferano le biennali e le fiere d’arte giocano un ruolo primario – con le loro strategie di marketing che portano ad un preciso stile di vita. Infine, il ruolo delle case d’asta e dei media fanno sì che l’arte sia visibile come mai prima d’ora. Si potrebbe dire che vi è un eccesso di visibilità. Questa è stata la scelta dei musei, delle gallerie e dei festival, in parte per tenere il passo con le attrazioni in competizione, i beni di lusso, ecc, Il problema è che quando si suppone un’istituzione offra un livello standard di servizio rischia poi di uscire dal meccanismo. Inoltre, quando il pubblico confonde un contesto commerciale – come una fiera – con le biennali, o viceversa, le aspettative sono giudicate male. Ho parlato con persone che dicono di aver ‘sentito di Venezia Art Fair’! I musei dovrebbero avere il dovere di difendere l’educazione all’arte contemporanea e di farlo con le modalità più indicate. Un esempio virtuoso é HKW a Berlino; sta realizzando un programma imponente. L’Anthroposcene Project (una serie di mostre, conferenze e pubblicazioni) definisce la sfera intellettuale del momento».

In molti stati europei, per la maggior parte delle persone le istituzioni accademiche hanno perso molta credibilità in questi ultimi anni a causa delle economie di privatizzazione che favoriscono poco l’interesse pubblico a vantaggio delle esigenze aziendali. Cosa ne pensi?
«È necessario guardare la situazione Paese per Paese, ed istituzione per istituzione. Cosa sta succedendo in Olanda non è lo stesso di quello che sta accadendo in Italia. La situazione dei musei del Regno Unito è cresciuta costantemente a partire dagli anni del governo Blair; oggi i conservatori stanno tagliando i fondi per l’arte e chiedono alle istituzioni di coprire il deficit attraverso le sponsorizzazioni private e il sistema clientelare. Con le drastiche riduzioni di finanziamento le istituzioni non possono permettersi di essere troppo esigenti nei programmi. Tuttavia, oltre alle obiezioni specifiche che si possono avere verso le pratiche del business, c’è un altra dinamica più insidiosa in gioco: Vale a dire, le richieste dei professionisti del marketing spesso non soddisfatti per lo scambio di denaro versato dall’azienda per la promozione del marchio. Spesso arrivano ad influenzare la stessa programmazione di musei e a trasformare il loro marchio in arte. Questa strategia è una tendenza generale nel settore delle imprese. Le istituzioni pubbliche non dovrebbero essere messe in una posizione di debolezza. Hanno bisogno di essere protette, da parte dello Stato, per fare il bene pubblico. Gli operatori di marketing sanno che il settore museale è alle corde, depredandolo sistematicamente nei contenuti e alterandoli a proprio piacimento. Le aziende coinvolte nelle arti visive dovrebbero cercare di mantenere  gli artisti e i curatori artefici dei loro progetti».
Camilla Boemio
@https://twitter.com/camillaboemio

Scrittrice d'arte, curatrice e teorica la cui pratica indaga l'estetica contemporanea; nel 2013 è stata curatrice associata di Portable Nation, il padiglione delle Maldive alla 55.° Esposizione Internazionale d’Arte La Biennale di Venezia, dal titolo Il Palazzo Enciclopedico; nel 2016 è stata curatrice di Diminished Capacity, il primo padiglione della Nigeria alla XV Mostra Internazionale di Architettura, con il titolo Reporting from the Front; nello stesso anno ha partecipato a The Social (4th International Association for Visual Culture Biennial Conference) alla Boston University. Nel 2017, ha curato Delivering Obsolescence: Art Bank, Data Bank, Food Bank, un Progetto Speciale della 5th Odessa Biennale of Contemporary Art. E’ membro della AICA (International Association of Arts Critics). Boemio ha scritto e curato libri; ha contribuito con saggi e recensioni a varie pubblicazioni internazionali, scrive regolarmente per le riviste specializzate, e i siti web; ha tenuto parte a simposi, dibattiti e conferenze in musei e festival internazionali.

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