Categorie: Architettura

B.SIDE/3 STEFANO CAGGIANO

di - 3 Aprile 2015
Stefano Caggiano si definisce un “design interpreter” e si occupa dei linguaggi del design, ovvero di «come l’estetica degli oggetti esprima i valori di una cultura e di un determinato contesto antropologico». Insegna alla NABA, oltre che all’Istituto Marangoni e all’ISIA di Faenza, dove tiene corsi incentrati sulla cultura del progetto,  su cui da poco ha anche pubblicato i due e-book I generi del design e I linguaggi del design. Crede nella formazione come possibilità di orientamento nella nostra epoca, che dice essere «di grande creatività, ma creatività quantitativa» .
«L’urgenza che avverto a livello di formazione – afferma – è fornire bussole, strumenti che aiutino ad indirizzare, a prescindere dal territorio in cui ci si trova».
Parliamo con Caggiano del senso dell’insegnamento del design.
Raccontaci la materia dei tuoi corsi.
«La cultura del progetto è una materia teorico-pratica ed interpretabile in entrambi i sensi.
Io in particolare cerco di fare un innesto incisivo tra teoria estrema e pratica estrema. La parte teorica è astratta, e attraversa discipline diverse (semiotica, antropologia filosofica, estetica, storia del design…). La parte pratica è estremamente concreta, perché richiede di arrivare al risultato (l’oggetto costruito) nei tempi assegnati, e anche di inventarsi il modo di arrivarci, improvvisando, arrangiandosi, decidendo quante e quali risorse investire».

Nel tempo il termine ‘design’ ha subìto una metamorfosi semantica. Oggi cosa si intende con ‘design’?
«Design è un termine ombrello, una parola sotto cui metti cose diverse, più che termine generale con sotto-specializzazioni. Mi pare sia un cluster, un aggregato eterogeneo di cose diverse tra loro, come le “somiglianze di famiglia” di Wittgenstein : A somiglia a B, B a C, ma  A non a C. Non c’è un carattere costante che le accomuna. La galassia del design mi sembra abbia una struttura di questo tipo, più che essere una gerarchia ordinata».
La specificità dei corsi di design è quasi sempre esplicitamente legata ad opportunità professionali, cosa che forse crea un’attesa alta sulle possibilità di lavoro. Che ne pensi?
«Qui entriamo nel campo in cui si confonde la realtà con i propri desideri: frequentare un certo corso di design e aspettarsi che il mercato del lavoro cerchi quella figura specifica. Una parcellizzazione così fitta di specializzazioni legate a corsi specifici può generare l’equivoco: faccio l’università, poi un corso e divento designer. Non è così automatico. Bisogna piuttosto costruire la propria carriera».
Anche perché oggi è sempre meno probabile preventivare il proprio destino professionale.
«Sì. E per questo è importante insegnare agli studenti a costruire il proprio percorso, non c’è già una strada che gli aspetta. Ho l’impressione esista una sorta di schizofrenia: si cresce abituati a seguire direzioni, percorsi, indicazioni. Poi d’improvviso te la devi cavare da solo. E lì molti vanno in crisi, perché è lì che c’è il filtro vero, tra chi riesce a proseguire, e chi no».

Gli studenti che si iscrivono alle scuole di design, cosa cercano? Un lavoro o l’apprendimento di un sapere?
«Dall’esperienza che ho, la maggior parte risponderebbe il lavoro. Anche se la mia sensazione è che fatichino a costruire un’immagine di sé diversa da quella del professionista confezionato dalla scuola, e rispondono così. Come se ci fosse una carenza ad immaginarsi in altri modi. Ma non vedo questo come uno scadimento di capacità teoretica degli studenti; sono consapevole del fatto che chi sceglie una scuola di design sceglie un percorso che porta ad una professione, altrimenti sceglierebbe altro».
Le proposte didattiche spesso sembrano un’offerta di un servizio a chi non è un semplice studente, ma diventa acquirente di un ‘pacchetto’ formativo: è una visione estremizzata?
«L’approccio cambia a secondo del tipo di scuola. Nelle scuole private si cerca di differenziare la propria offerta formativa e di comunicare la propria specificità, e in questo senso lo studente è un cliente da conquistare. Una volta entrato, però, torna studente: la didattica all’interno dei corsi è piuttosto simile a quella delle scuole pubbliche».
Tra privato e pubblico noti differenza di preparazione degli studenti?
«Sì. Le scuole pubbliche dove io insegno sono a numero chiuso, ed entrano quelli in gamba. Nelle private non c’è questo tipo di selezione».
La soluzione sarebbe forse una maggiore selezione di ingresso ovunque, intesa come possibilità reale e preventiva di comprendere i propri interessi e capacità, applicabile quando esistono concrete alternative allo studio universitario, come accade nelle scuole professionali in Germania. In Italia c’è forse un tabù culturale intorno all’accettazione di un’alternativa allo studio?
«Questo è un problema molto ampio legato alla nostra percezione del valore dello studio, del pezzo di carta. Lo scopo della didattica è reimpostare le cose, e lavorare su un indirizzamento migliore, e su percorsi diversi da quelli universitari, che per alcuni potrebbero svelarsi la scelta migliore».

Si registra un numero crescente di immatricolazioni nelle scuole di design, lo confermi?
«Direi di sì, e nutrito da studenti stranieri. E questo legato anche al fatto che il design sta diventando una professione di massa. Personalmente credo che questo interesse massivo abbia a che fare con la modernità liquida di Bauman. Quando il mercato immette innovazione a getto continuo, la progettualità, la creatività non sono solo un’inclinazione personale di alcuni, ma diventano un tratto antropologico, cioè parte del modo in cui viviamo. Siamo sempre invitati a scegliere, ad esercitare delle opzioni, a mettere like, ovvero a fare progettualità anche nelle cose più minute, però di continuo. I più giovani sono sintonizzati sul tempo in cui vivono, e sentono naturale occuparsi di dimensione creativa».
Una caratteristica diffusa delle scuole di design sono i corsi tenuti da professionisti. Questo cosa implica?
«Costituisce una delle criticità maggiori delle scuole di design: i docenti sono designer, ed è giusto che siano loro ad insegnare l’approccio progettuale. Però, proprio perché professionisti, non è raro che alcuni siano bravi a fare e meno a trasmettere il fare, non abbattono cioè il muro tra sé e gli studenti. Ecco forse questa è una lacuna che andrebbe in qualche modo colmata».
Le iscrizioni di studenti stranieri in scuole italiane è sempre alta. Sono più interessati al nostro  know-how o alla nostra storia?
«Dipende. Gli asiatici per esempio sono interessati al know-how, perché il loro modo di concepire l’apprendimento è l’emulazione: lo studente asiatico riproduce fedelmente ciò che il docente gli mostra. Lo scarto tra ciò che è stato fatto e il proprio contributo originale tra gli occidentali è immediata, in loro no».
Ha ancora senso legare la capacità creativa al territorio in cui nasce?
«Secondo me sì e no, dipende da che parte si appoggia il fare design, se sulla testa o sui piedi. Sui piedi parti dal sapere territoriale, dal fare artigiano e sviluppi il progetto. Dalla testa,  prima ragioni su quello che vuoi fare, poi vai a cercare lo skill artigianale di quello che cerchi. Oggi coesistono i due approcci e non mi sento di parteggiare per l’uno o altro, hanno entrambi limiti e pregi».

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