Dalla parte del drago #37: Battere in ritirata

di - 16 Ottobre 2022

Mentre nelle questioni internazionali che contano davvero qualcuno sembra non volersi ritirare e continua a far danni sul serio, io, ispirato dalla dipartita di un grande sportivo che non c’entra con l’arte – ma forse un po’ anche – ri/tiro fuori qualche nome di chi ha gettato spugna, pennelli e aspettativa. Andrea del Verocchio, ad esempio, mirabile maestro, indiscusso nella Firenze di fine quattrocento, ebbe una bottega incredibilmente richiesta e proficua, che al suo interno includeva talmente tanti nomi importanti che sembra oggi di scorrer la Champion League degli artisti. Tra pittori, orefici, scultori e decoratori, gli ruotarono attorno Pietro Perugino e Sandro Botticelli, Domenico Ghirlandaio, Francesco Botticini, Lorenzo di Credi, Francesco di Simone Ferrucci, Bartolomeo della Gatta e chi più ne ha più ne metta.

Andrea del Verrocchio e Leonardo, Battesimo di Cristo, 1469-78, olio e tempera su tavola, 178 x 150 cm.

Tra questi, e di certo non in panchina, stava Leonardo da Vinci, addirittura. Vasari racconta però che, mentre realizzava una tavola con San Giovanni che battezzava Cristo, “Leonardo lavorava un angelo che teneva alcune vesti e benché fosse ancora giovane, lo condusse in maniera tale da renderlo migliore delle figure del maestro (…) il che fu cagion ch’Andrea mai più non volle toccare colori, sdegnatosi che un fanciullo ne sapesse più di lui”. Ma allora val la pena di veder chi altro, per sua stessa scelta, interrompe la carriera creativa in corsa. Marcel Duchamp, sommo maestro, di Ready Mades ne avrebbe potuti fare centomila ma si arrese dopo poco più di una decina. Tredici, per esser precisi, perché ripetersi non va bene e si finisce con l’annoiare: era meglio giocare a scacchi, avrà pensato, in attesa di vedersi ri-consacrato.

Marcel Duchamp, Roue de bicyclette, 913, ruota in metallo, legno, vernice, 129,5 x 63,5 x 41,9 cm

Anche Sebastiano del Piombo disse basta, ad un certo punto, dedicandosi alla bolla papale che spiega il suo nome attuale. “Sebastiano Veneziano eccellentissimo pittore”, il Vasari lo definiva, che “remunerandolo troppo altamente, fu cagione che di sollecito et industrioso, diventasse infingardo e negligentissimo”. Dopo il sacco di Roma che cambiò il suo stato d’animo e mirabil cose create, smise i pennelli e si dedicò ad altro, divenendo “frate pontificio piombatore”, ossia guardasigilli delle bolle e delle lettere apostoliche, con l’obbligo di indossare la tonaca da prete, iniziando una nuova calma carriera perché “lavorare niente voleva, salvo all’esercizio del frate e attendere a nuova vita”, che mai l’avremmo detto ma divenne il “più bel fratazo di Roma”. Proseguiamo spicci, che ormai si odiano i testi lunghi. Francesco Francia, orafo, pittore, scultore, medaglista… tutto, insomma, nato a Bologna nel contado di Zola Pedrosa, ci rimase secco per una cosa. Dopo anni di opere sommamente ben eseguite gli “fu gran danno (…) il presumere di sé e non pensare che l’altrui fatiche potessero avanzar di gran lunga le sue; e per natura e per arte avere da’l cielo non solamente le doti eccellenti e rare, ma ancora prerogativa di grazia, di agilità e di destrezza nell’operare molto maggiori che altri non ha”. Così Francesco, quando vide l’Estasi di Santa Cecilia di Raffaello nella cappella della chiesa di San Giovanni, smise di dipingere e cadde in una tale depressione da condurlo presto alla drammatica fine.

Francesco Francia, Sacra Famiglia, 1485 circa, 54 cm x 40 cm, olio su tavola

“Laonde il Francia, mezzo morto, per il terrore e per la bellezza della pittura che era presente a gli occhi, et a paragone di quelle che intorno di sua mano si vedevano (…) tutto fuori di se stesso, di dolore e di malinconia si morì”, e pace all’anima sua, ora e qui.Cavalchiamo il tempo, senza un finale così poco adatto. Anche un altro Francesco, cronologicamente nostro, ha smesso di far arte per vestire i panni del critico d’essa. Bonami, intendo, che senza credersi Picasso, come cita un suo noto testo, è passato presto dalla parte non del drago ma di chi guarda e organizza mostre, senza la pretesa della creazione.

Hans-Peter Feldmann, One pound strawberries, 2011, 34 C-prints, 10 x10 cm

Oppure Hans-Peter Feldman, artista tedesco, geniale, ironico, concettuale – quello delle fragole, tanto per chiarire. Che prima dei Cento Anni e del David a colori, ai tempi degli storici Bilder, all’improvviso quasi s’arrese. Smise di produrre opere e aprì un negozio di giochi, con l’insegna del Rinoceronte del Dürer, come simbolo dell’esercizio e perenne ragguaglio. Ma per fortuna nostra poi si è ripreso, e oggi lo osanniamo. E anche Christian Frosi dieci anni fa ha smesso, per rimanere nell’immediato (o quasi) contesto. Che recentemente alla GAMeC qui vicina è stata allestita “La Stanza Vuota”, che ne ripercorre la breve avventura, e un volume di recente uscita chiede se “si può smettere di essere un artista”, e chissà qual’è la risposta. Ma intanto diamo spazio a quell’antefatto che apparentemente non c’entra con il testo: Re Roger si è ritirato dal tennis giocato. Non sarà letteralmente un artista, ma dopo venti finali del Grandi Slam vinte e la sua eleganza nel disegnar traiettorie, dobbiamo per forza dire: buon ritiro anche a te, Maestro Roger Feder.

Nicola Mafessoni è gallerista (Loom Gallery, Milano) e amante di libri (ben scritti). Convinto che l’arte sia sempre concettuale, tira le fila del suo studiare. E scrive per ricordarle.
IG: dallapartedel_drago

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