Da una parte c’è la filosofia intesa come ricerca
appassionata della verità, come amore della conoscenza e della realtà. Ipazia è
una donna, ma è soprattutto una mente al lavoro. E questo lavoro, al cinema, si
vede: la
narrazione non riguarda infatti solo un conflitto di poteri storici, ma la
nascita di un’idea geniale (l’orbita ellittica della Terra) come descrizione
dell’universo e come elaborazione di un pensiero radicalmente innovativo, che
al tempo stesso sa recuperare e selezionare le sue fonti, le auctoritates.
Dall’altro lato, la religione e la fede come anti-ragionamento,
come processo di spersonalizzazione. Di qui, naturalmente, le polemiche che
hanno accompagnato il film alla sua uscita nelle sale. Ma proprio in questo
aspetto risiede gran parte della sua forza e della sua novità. Il fanatismo,
infatti, è considerato qui come processo. E a un certo punto la ragione
dell’ortodossia esclude quella della razionalità. Anche chi, come Davo, scopre
il valore della carità e della speranza che il cristianesimo offre
all’individuo, finisce per scontrarsi con la violenza elementare che scatena. È
una riflessione storica non banale, soprattutto perché resa in forma
cinematografica; ed è al tempo stesso lontana da ogni facile e sterile
anticlericalismo.
Le domande che Amenàbar pone allo spettatore sono –
soprattutto oggi – dirimenti: fin dove è lecito spingere il desiderio di
purezza e liberazione? A che punto la fede si trasforma in oppressione? Ed è
possibile, in definitiva, 16 secoli fa come ai tempi nostri, conciliare tra
loro la sete di conoscenza, la ragione e la visione confessionale? Che cosa è morale?
In questa cornice “apocalittica” (nel senso proprio di
‘rivelazione’), l’Impero appare lontano e sfuggente, racchiuso com’è nella
figura troppo debole e anti-carismatica del prefetto Oreste. Innamorato di
Ipazia al punto di esserne succube, ma alla fine schiavo delle apparenze e del
conformismo. Fino all’ultimo – e fa quasi tenerezza – si ostina a chiedere alla
filosofa, ossessionata dalla posizione degli astri: “Ma perché è così
importante per te?”.
E infatti, quando la situazione è ormai irrimediabilmente compromessa, il suo
amico vescovo gli rinfaccerà di essersi convertito ipocritamente, come tanti
altri, “solo per fare carriera in politica.” Touché!
Ecco dunque un buon esempio di cinema storico di
intrattenimento “all’europea”, per molti versi antitetico rispetto a quello
americano: un cinema di idee invece che di azione, di concetti invece che di
sentimenti. Sulla scorta di quello che, pur con qualche occasionale scivolata, Jean-Jacques
Annaud va facendo
da più di trent’anni (La guerra del fuoco, Il nome della rosa, Sette anni in Tibet, Il nemico alle porte). E non siamo tanto lontani da
quel concetto di “fantascienza storica” vagheggiato da Fellini (quando descriveva il suo Satyricon come “un saggio di
fantascienza sul passato”) e Nam June Paik (“La fantascienza è il
nostro modo realistico di immaginare il futuro. Dobbiamo ancora inventare un
tipo di fantascienza che si riferisca al passato”) negli anni ‘60. Si può anzi dire che questo, tra
filosofia neo-platonica e fondamentalismo paleocristiano, è il vero Scontro
tra Titani, altro
che il neo-sandalone sgangherato sfornato dal solito Leterrier di turno.
In questa visione cinematografica che possiamo
tranquillamente definire nuova, i mezzi spettacolari più aggiornati sono messi
al servizio di una narrazione simbolica e culturale che non ha proprio nulla di
consolatorio, o di posticcio (di ideologico sicuramente sì, come del resto ogni
narrazione). Si assiste qui alla rappresentazione dell’innovazione come
modifica radicale della prospettiva, come devianza, come divergenza. Una rappresentazione che non ha
niente a che vedere, per una volta e finalmente, con il multiculturalismo
buonista e sempliciotto del “volemose bene”, perché invece fa esplodere tutta la
problematicità e la criticità del contraddire l’autorità (spirituale, in questo
caso), esponendone ed esibendone le conseguenze estreme.
Ma il punto più interessante non è forse neanche questo.
Sono invece quelle riprese della Terra vista dallo spazio, che inframmezzano il
racconto inserendosi nei punti-chiave. L’effetto è straniante: questo sguardo
anonimo, disumano, che inquadra il pianeta posizionandolo nella galassia e
nell’universo, è il vero protagonista del film.
christian caliandro
*articolo
pubblicato su Exibart.onpaper n. 65. Te l’eri perso? Abbonati!
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