PdP, Senza titolo, 2022, inkjet print on cotton paper, cm 44x58,7_ed.5+1ap_w, Foto Francesco Rucci, courtesy l’artista e Galleria Studio G7
Il prossimo 21 giugno, giorno in cui la primavera lascia spazio alla nuova stagione estiva, chiude la mostra In superficie. Appunti sulla natura, di Paola De Pietri presso la Galleria Studio G7 a Bologna, accompagnata da un testo di Alessandro Rabottini. Sebbene il passaggio fra le due stagioni diventi sempre più indistinto a cause di temperature che introducono precocemente ai mesi caldi, tale promemoria è utile non solo a suggerire una visita alla personale di un’artista matura e finemente consapevole del mezzo fotografico ma è altresì importante per avvicinarsi alla sua poetica.
A un primo e superficiale sguardo possiamo cogliere una mostra di fotografie di paesaggio. Effettivamente il tema è particolarmente caro all’artista reggiana annoverata in ambito fra i migliori fotografi italiani – non è un caso l’utilizzo esclusivo del genere maschile – in diverse mostre prestigiose. Il paesaggio, tuttavia, non è il focus di questa mostra, non si tratta di vedute che contemplano scenari emiliani e dai quali realmente provengono gli scatti. Si è piuttosto alla presenza di una rinnovata relazione dell’artista con la natura e una dichiarazione astratta della stessa. Il soggetto evocato nei suoi lavori, infatti, deriva da una pratica di cammino nel territorio natio che l’artista esplora, calpesta, perlustra, registrando appunti di tale esperienza.
Se si rimane sulla soglia della galleria si potrebbe idealmente visualizzare l’allestimento come uno spartito a leporello composto da quattro pagine, le quattro mura della sala. Gli appunti fotografici di De Pietri si situano su questo spartito immaginario proprio come note sparse. A partire da una nota invernale che si dilata fra un trittico di rami spogli sommersi dolcemente in cumuli di neve caduta e sedimentata e un mucchio di altra neve lievemente calpestata, si passa a tre immagini di ombre.
Si intravedono proiezioni su muri e pavimenti delle foglie di alberi che si astraggono fino ad apparire macchie sfocate. Lo scorrere del tempo e delle stagioni, condensato in forme incerte, seguite da una nota estiva con rigogliosi e alti campi d’erba nel dittico in bianco e nero.
E poi, ancora, risoluti papaveri rossi fra le creste di un prato che dal verde va ingiallendosi e del cui giallo, invece, si spogliano i fiori di tarassaco nell’immagine prossima in cui i fiori emergono in un confortevole monocromatico. E, finalmente, a chiudere questo brano espositivo, un risplendere palpitante di fiori di colza e margherite fra i quali si interpone un’apparente linea di confine che congiunge, di contro, il dittico. Due immagini che tracciano l’accadimento più tragico e insieme vitalissimo, quello della primavera, in un ciclico divenire.
Le opere fotografiche riunite quindi non contemplano il paesaggio, secondo la florida tradizione pittorico artistica che pone il soggetto umano a distanza dalla natura per farne sola pratica estetica, ma rappresentano tracce di accadimenti in variazioni temporali. Note e appunti sulla transitorietà.
Una scansione ritmata del tempo, del suo traslare invisibile che viene cristallizzato in bianchi frame, selezionando porzioni di un luogo sempre finemente naturale e non antropizzato, se non fosse per la timida parete di un casolare che emerge fra l’erba rigogliosa. Eppure, chi osserva è lì, immerso nella natura insieme all’artista che prende parte in prima persona all’esperienza come atto di relazione. Le fotografie in mostra si fanno allora traduzione di una situazione, come dichiarazione visibile della condizione fugace. Dalla superficie delle cose si è posti qui in un rapporto presente e di aderenza, coincidente anche con lo spazio e il tempo occupato dall’autrice.
Risalendo all’etimologia del termine nota, già accostato a quella di appunti, ci si inoltra nell’ambito della conoscenza dove conoscere, notare, segno da riconoscere potrebbero essere le azioni che conducono l’incontro dell’artista Paola De Pietri con l’ambiente naturale e di cui traduce liriche immagini che con grazia ne custodiscono l’enigma.
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