Categorie: Fotografia

Other Identity #99. Altre forme di identità culturali e pubbliche: Letizia Marabottini

di - 17 Febbraio 2024

Tratta dall’omonima rassegna ideata dall’artista e curatore indipendente Francesco Arena, la rubrica “OTHER IDENTITY – Altre forme di identità culturali e pubbliche” vuole essere una cartina al tornasole capace di misurare lo stato di una nuova e più attuale grammatica visiva, presentando il lavoro di autori e artisti che operano con i linguaggi della fotografia, del video e della performance, per indagare i temi dell’identità e dell’autorappresentazione. Questa settimana intervistiamo Letizia Marabottini.

Other Identity: Letizia Marabottini

Il nostro privato è pubblico e la rappresentazione di noi stessi si modifica e si spettacolarizza continuamente in ogni nostro agire. Qual è la tua rappresentazione di arte?

«Mi piace pensare che l’arte sia autonoma, che riesca a creare una realtà altra, che diventi motivazionale, rituale sia nel processo creativo che in quello percettivo, in alcuni casi con la speranza e a volte la presunzione, che diventi intimamente salvifico. Per questo senso di ritualità, difficilmente ragiono per opere singole, ma preferisco farlo per serie o per un progetto più complesso. Fatto di moltissimi tentativi, sperimentazioni, in un progetto mi confronto con materiali diversi, in un processo che, per quanto sia per la maggior parte incentrato sull’utilizzo della fotografia digitale, tenta di non allontanarsi mai da percezioni multisensoriali».

DOLCE ISTANTE DELLA MEMORIA,2013,stampa su ecopelle, dittico(60×43-60

Creiamo delle vere e proprie identità di genere che ognuno di noi sceglie in corrispondenza delle caratteristiche che vuole evidenziare, così forniamo tracce. Qual è la tua “identità” nell’arte contemporanea?

«Nell’arte, lavorare senza il dovere di rappresentare una definita identità (un po’ come nel mestiere dell’attore, i cui le capacità interpretative di modi sempre diversi ne esaltano la bravura e l’ intensità dei ruoli) non avrebbe impedimenti e sarebbe probabilmente una buona forma di libertà.

La riflessione mi porta però poi a dire, che nella quantità indefinita di proposte artistiche e stimoli, il modo più efficace di dare un segnale, comporta una pertinenza di progetti espositivi che abbiano un linguaggio, una riconoscibilità propria, una sensibilità poetica riconoscibile.

Da qui, a trovarne uno proprio, mi rendo conto che c’è bisogno di un lungo processo di ricerca esperienziale, di studio, di semplificazione, non superficiale, in cui sentirsi pienamente a proprio agio, in una dimensione il più possibile sincera e non ripetitiva.

Personalmente mi sento di essere nel pieno della ricerca, senza capire bene se ci sarà mai un effettivo punto di arrivo».

(dalla serie Mi chiamo Sinta e vengo dall’Africa),Wolfgang Amadeus, 2017

Quanto conta per te l’importanza dell’apparenza sociale e pubblica?

«Conta nel momento in cui la percezione dell’altro diventa stimolo di confronto e non sia solo, l’apparenza, un’illusione marginale. È utile comprendere le motivazioni più profonde del perché ci si mostri in una dimensione sociale e pubblica».

(dalla serie Per qualche minuto) L’intenzione è quella di sfuggire

Il richiamo, il plagio, la riedizione, il ready made dell’iconografia di un’identità legata al passato, al presente e al contemporaneo sono messi costantemente in discussione in una ricerca affannosa di una nuova identificazione del sé, di un nuovo valore di rappresentazione. Qual è il tuo valore di rappresentazione oggi?

«Il concetto di sinestesia mi ha sempre molto affascinata, trovo che mantenga l’essere, umano. In questo processo multisensoriale, che cerco sempre di non dimenticare mai nei miei progetti, accolgo gli stimoli del presente, lascio riemergere esperienze del passato, senza l’affannosa ricerca di trovare una nuova identificazione. Succede di prendere ispirazione da una modalità iconografica del passato, utilizzando media contemporanei, stimolando ad una riflessione presente o sul futuro».

Sbrano, 2016, stampa su pioppo, 60×90

Il nostro “agire” pubblico, anche con un’opera d’arte, travolge il nostro quotidiano, la nostra vita intima, i nostri sentimenti o, meglio, la riproduzione di tutto ciò che siamo e proviamo ad apparire nei confronti del mondo. Tu ti definisci un’artista agli occhi del mondo?

«Nel senso più ampio del termine, dunque nella personale modalità espressiva, creativa, mi sento parte dell’arte, ma credo che sia più giusto che siano gli occhi del mondo a definirti artista».

(dalla serie Inquieta requie), Vertigine, 2022, stampa su pioppo, 50×25

Quale “identità culturale e pubblica” avresti voluto essere oltre a quella che ti appartiene?

«Da bambina dicevo a mia madre che sarei voluta diventare un muratore da grande, l’idea di poter creare qualcosa dal nulla mi ha sempre affascinata. Se ci penso ora, la cosa che ho sempre amato, ma che non sono mai stata in grado di fare, per incapacità, è produrre musica. Dunque, l’identità culturale e pubblica che avrei desiderato essere è quella di un grande compositore, non uno in particolare, uno bravo, con la capacità di rendere i momenti d’ascolto estranianti».

(dalla serie Sweet instant of memory) Ruvido il ricordo, 2012

Biografia

Nata ad Acquapendente (VT) nel 1974, vive e lavora a Roma. Dopo gli studi presso l’Accademia di Belle Arti di Roma inizia una sua ricerca fondata sull’osservazione del tessuto urbano, per appartenenza, in particolar modo sull’indagine della condizione d’isolamento urbano della donna. Inizia così un percorso di riflessione, utilizzando la fotografia digitale come principale mezzo espressivo, sperimentando vari supporti di stampa adatti ai temi affrontati, riguardanti il rapporto con memoria e natura, nonché per mantenere forte il legame multisensoriale, tema principale dei precedenti progetti pittorici.

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