Categorie: Personaggi

L’intervista/ François Hébel

di - 28 Settembre 2015
Inaugura a Bologna il prossimo 2 ottobre la seconda edizione della BIENNALE FOTO/INDUSTRIA 2015 dedicata al mondo del lavoro in tutte le sue forme e quest’anno in particolare alla produzione industriale dalla creazione al riciclaggio. Quattordici esposizioni suddivise tematicamente (Post produzione,  Produzione, Produttori, Pausa, Prodotti e distribuite in undici sedi storiche della città, fino all’1 novembre) cui si aggiungono GD4PHOTOART 2015 e INDUSTRIA ITALIANA DAGLI ALBUM AI LIBRI FOTOGRAFICI, collezione Savina Palmieri, a cura di Urs Stahel presso la Fondazione MAST (fino al 10 gennaio prossimo): un insieme di iniziative che si propone d’ inquadrare le discipline, i metodi,  i volti e i paesaggi del mondo dell’industria, tentandone una lettura trasversale attraverso l’opera di fotografi affermati ed emergenti.
La rassegna, promossa dalla Fondazione Mast in collaborazione con il Comune di Bologna, vede la direzione artistica di François Hébel, storico direttore de Les Rencontre d’Arles.  Per comprendere le dinamiche e i settori d’intervento  di un’operazione espositiva unica nel suo genere abbiamo posto al curatore alcune domande.
Quali sono le prospettive più interessanti della fotografia industriale?
«Il festival Foto / Industria è un ampio approccio sul mondo del lavoro e della produzione. Il termine «industria» deve essere inteso nella sua accezione americana, come tutto il settore produttivo, dall’ufficio alla fabbrica. In altre parole, è la vita di tutti sul pianeta da otto a dodici ore al giorno. Si tratta di un vasto campo d’indagine. Anche se ci sono ormai festival fotografici su quasi tutto, nessuno prima si è interessato a questo filone che, dall’invenzione della fotografia, è stato certamente quello che ha prodotto il maggior numero di fotografie dalla carta stampata alle foto di famiglia. Il punto più interessante è che ci racconta la vita sociale con una grande varietà di punti di vista, dalle fotografie su commissione, per l’azienda, per i giornali, alle necessità legate all’ingegneria, per i progetti d’arte».

È possibile individuare un’estetica specifica della fotografia industriale?
«No, per fortuna, altrimenti non potremmo fare un festival. Sia i più anonimi (fotografi amatoriali, fotografi della domenica) che la maggior parte dei fotografi affermati hanno lavorato sul tema. Il genere copre l’intera gamma dell’estetica fotografica. Ecco perché, attraverso questo tema, copriamo un ampio spettro di storia della fotografia».
In questa Biennale, sono presenti una serie di famosi autori (come David LaChapelle, Gianni Berengo Gardin, Gabriele Basilico, HenriCartier-Bresson, Robert Doisneau, Elliot Erwitt) e fotografi emergenti (in particolare per il concorso GD4PHOTOART 2015): oltre al soggetto comune è possibile rintracciare un altro fil rouge?
«Vi è certamente una tensione nel lavoro quando si vede che vari artisti – il cinese Hang Hao, l’americano David LaChapelle, il canadese Ed Burtinsky – stanno parlando della presa di coscienza necessaria sull’impatto dell’industria o del consumismo sulla Terra. Vi è anche un interrogativo che verte sul modo in cui si guarda alla loro giornata di lavoro e al loro rapporto con gli altri, attraverso per esempio le opere di Kathy Ryan, non una fotografa ma un photo-editor della rivista New York Times, e Jason sangik Noh, un chirurgo oncologo coreano. Va detto anche che le mostre saranno fruite in ambientazioni eccezionali ed è stato fatto un grosso sforzo per prendere il meglio dalle incredibili location che Bologna ha concesso per ospitare il lavoro».

Qual è il modello curatoriale che ha adottato per questa esposizione?
«Non sono sicuro di aver capito la domanda. Da 35 anni sto cercando di esplorare nuovi modi per creare questo legame tra il fotografo, il suo lavoro e il più grande pubblico possibile. Il mio modello è probabilmente la convinzione che gli artisti non sono marginali in una società, ma devono essere al centro, pena l’incapacità di guardare oltre noi stessi e al mondo in modo critico al fine di migliorare».
In quale modo è rinvenibile il cambiamento sociale attraverso la lente di questo tipo di fotografie?
«La parte documentaristica del lavoro è certamente importante, ma si devono guardare agli approcci concettuali che a volte colpiscono le nostre menti nel modo più efficiente possibile. Questo è il motivo per cui non credo che la fotografia debba essere segmentata in una gerarchia di genere ma che i diversi approcci siano posti uno accanto all’altro, solo così si dà spazio sufficiente ad ogni artista di esprimersi. In tal caso non si vedrà solo un successione di buone fotografie».
La fotografia industriale produce una nuova tipologia di collezionisti?
«Isabella Seràgnoli sta dimostrando questo con la raccolta Mast e con la scelta di chiedermi di creare questa Biennale. Lei è una visionaria e un pioniere del genere. Foto / Industria mostra anche la collezione di volumi industriali di Savina Palmieri. Certamente saranno seguite da collezionisti e pubblico attento, considerato che il campo è vasto e interessante».

Se e quali interrogativi si auspica generi questa Biennale?
«Lo spero, sia per ciò che mostra e dal modo in cui artisti traducono i loro sentimenti sul nostro mondo contemporaneo. Se Foto / Industria presenta il lavoro del passato è anche per dare una visione alla società del lavoro di oggi. È sempre più semplice valutare il lavoro a distanza, ma il festival è sulla produzione contemporanea».
Se potesse scegliere una colonna sonora quale sarebbe quella di questa Biennale?
«La Biennale offre la scelta di colonne sonore nelle tre mostre che includono proiezioni. La musica di Arvo Pärt è composta sulle fotografie di soggetti minori e raccolte di Pierre Gonnord, abbiamo creato una colonna sonora originale per Ed Burtinsky (composta da Vincent Lepage) e per Kathy Ryan (composta da Olivier Koechlin). Ma penso che, nel complesso, la voce del mondo sia molto presente nelle sue difficoltà e contraddizioni tanto come le sue speranze nella capacità di reazione e l’ intelligenza creativa del genere umano».
Paola Pluchino

Professionista multidisciplinare vive a Bologna dove si interessa di progetti d’eccellenza in ambito culturale, collezionismo, editing, curatela dell’arte contemporanea, crowdfounding, giornalismo e design ltd. Laureata in Scienze della Comunicazione e in Storia dell’Arte Contemporanea ha perfezionato i suoi studi a Venezia con un Master in Art Management in collaborazione con La Biennale. Ha lavorato al riordino del fondo Stefano Tumidei presso la Fondazione Federico Zeri di Bologna e come ufficio stampa per il Festival di Storia dell’Arte Artelibro - Bologna per cui ha curato l’editing del catalogo dei collezionisti antiquari A.L.A.I. A Treviso è stata professoressa in Citizen Journalism. Conclusa l’esperienza durata due anni come direttore editoriale della rivista di ricerca The Artship | Bulletin of Visual Culture specializzata su future e talenti emergenti – con il patrocinio dell’Università degli Studi di Bologna - ha iniziato la sua collaborazione con T.E.C.A periodico del Dipartimento di Filologia Classica e Italianistica dell’Università degli Studi di Bologna. Ha curato il profilo di ricerca e sviluppo nell’ambito lusso per Archivio delle Opere del Maestro Roberto Paolini e per i tirocini attivati con l’Accademia delle Belle Arti di Bologna. È corrispondente per il periodico d’arte contemporanea Exibart. Gli articoli di Paola su Exibart.com

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