Categorie: Personaggi

Parola di Botta

di - 7 Gennaio 2003

Mario Botta, architetto ticinese, rappresenta certamente un importante pezzo della storia dell’architettura del XX secolo. La transizione oltre il moderno, nelle realizzazioni ma anche e soprattutto nella coscienza degli studenti che poi sono diventati progettisti, è avvenuta con il suo indelebile contributo. E con eccezionale grinta il maestro rimane al timone di un’abbondante produzione di progetti e cantieri, ed alla guida della facoltà di Architettura dell’Accademia di Mendrisio.
Ultima fatica, anche se è difficile tenere il conto, è la nuova sede del MART a Rovereto, museo di arte contemporanea con 6.000mq di aree espositive e 5.000 mq di spazi per l’animazione e la ricerca. Quattro piani funzionalmente organizzati perché il museo viva nei servizi che offre. Dal piano terra, dedicato ai servizi, si scende negli archivi dell’interrato, o si sale attraverso un primo piano destinato all’animazione ed alle esposizioni temporanee, ed un secondo interamente dedicato alla permanente. Al centro un patio circolare, protetto da una lenticolare struttura che ricorda il velario di un antico e classico spazio romano, ed inondato di una luce calibrata e soffice.

Costruire un museo di arte contemporanea in Italia non è un’esperienza comune. Passare da un luogo come San Francisco a Rovereto, cambia qualcosa per il progettista?
Cambia tutta la procedura. Il progetto per San Francisco seguiva una procedura americana molto pragmatica, una definizione di un programma molto preciso. E poi cambiano i tempi. La progettazione in America lascia un certo numero di mesi. Abbiamo lavorato al progetto per quasi tre anni, dal momento del concorso, e poi la realizzazione è stata completata in soli 24 mesi.
Nel caso di Rovereto è proprio l’opposto: una programmazione non definitiva; tempi burocratici molto lunghi, e una fase di cantiere che si è trascinata per sei o sette anni. Tutto questo naturalmente cambia moltissime cose anche dal punto di vista progettuale, perché la definizione del progetto si sposta in funzione dei tempi. Non vi è quella certezza di programmazione che in America esiste dall’inizio; e soprattutto i tempi tecnici si dilatano moltissimo. Quindi da questo punto di vista le due procedure sono diametralmente opposte.

Lei lavora spesso pochi chilometri più in là, giusto oltre il confine della Svizzera. La forma mentis delle persone dovrebbe essere le stessa, però varcando il confine cambiano le leggi. Il problema sono le persone, o la burocrazia?
No, la differenza non è legata alle persone. Guardando alle persone coinvolote nel processo edilizio, gli italiani si trovano dappertutto: io li ho trovati anche a San Francisco. Il problema è legato alla procedura burocratica, alle leggi, alle amministrazioni. Lei deve pensare che a San Francisco ho iniziato il SFMOMA con una commissione, un certo gruppo di persone che hanno fatto il programma, hanno seguito il progetto e poi hanno collaudato il museo. Nel caso di Rovereto sono cambiate sei o sette amministrazioni, sei o sette sindaci, per cui la procedura si è allungata, con un continuo ricominciare da capo . E’ un fatto amministrativo, un fatto burocratico che sposta ogni volta i termini. Evidentemente, se cambiano le persone, ogni volta si deve riprendere da una situazione che è stata azzerata.

Invece rispetto agli stimoli… cambia qualcosa a livello di stimoli passare da una metropoli ad una località come Rovereto?
Sì, evidentemente nel caso di una grande città c’è più tensione; anche perché si sente molto di più che i tempi equivalgono anche ai costi. Il trascinarsi dei tempi comporterebbe, in una città come San Francisco, in una struttura di quel tipo, dei costi elevatissimi. Immaginate le conseguenze se il cantiere dovesse occupare un terreno per sei o sette anni, naturalmente i costi diventerebbero molto più elevati. Nel caso di Rovereto, come nel caso in generale del nostro territorio, la questione non si pone in questi termini: vi è un continuum di vita che si lega anche alla storia del cantiere. Non si sente quell’ingerenza tecnica che invece c’è in America. Il cantiere in Europa fa un po’ parte del sistema di vita, per cui si vive anche attraverso il ritmo del cantiere. In America questo non è possibile, perché il cantiere è visto quasi come una macchina, non come una parte del sistema normale di vivere.

Torniamo al MART. Un museo pensato nel ventunesimo secolo: è cambiato qualcosa nel tipo edilizio?
Moltissimo. L’evoluzione dei musei è un prodotto del nostro tempo: li abbiamo un po’ inventati man mano che ne nasceva l’esigenza. Nel caso europeo i musei avevano una struttura che inizialmente era più legata all’idea di conservazione, mentre poi, via via che se ne sono costruiti, i musei sono diventati non solo luoghi di conservazione, ma macchine vere e proprie che rispondono ad esigenze anche di svago, e di sosta; si sono arricchiti di una serie di strutture complementari, pensi alle caffetterie, ai bookshops, alle attività educative che in un primo tempo non erano certo parte del programma museale. I musei oggi sono delle macchine che non rispondono unicamente al fatto espositivo, per permettere una fruizione dell’opera d’arte; sono anche delle strutture dove vi è una componente più turistica, vi è come una sorta di servizio alla città che in precedenza non c’era.

Ed il cambiamento nelle forme espressive e fisiche dell’arte, il fatto che un’opera d’arte spesso non è più un qualcosa che facilmente si appende ai muri, quanto incide?
Incide sulla tipologia degli spazi. Evidentemente gli spazi dei musei sono diventati via via sempre più grandi; non vi è più la stanza, non vi è più la camera dove si appendeva il quadro, con una fruizione statica, per il visitatore che si poneva difronte all’opera. Negli attuali musei vi è l’idea di un percorso, vi sono degli spazi continui; le opere vengono a collocarsi nell’ambito di questi spazi come installazioni: richiedono degli spazi più grandi, luce più diffusa, per determinare un continuo tra lo spazio e l’opera d’arte.

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