Categorie: Personaggi

VENT’ANNI D’AMORE

di - 18 Settembre 2015
l suo quartier generale, a Milano, è in via Stradella, a pochi passi da corso Buenos Aires. Qui Raffaella Cortese ci ha mostrato Zoe Leonard, Ana Mendieta, Kiki Smith, Yael Bartana e Kimsooja, solo per citare alcune delle sue amate artiste. Poi, nell’arco di un paio d’anni, l’espansione in altre due sedi, sempre nella stessa strada. E ora una festa per i vent’anni di attività, con un giovane italiano – Francesco Arena – che sta lavorando in tutti e tre gli spazi. Ma oggi parliamo di lei, gallerista appassionata e lucidamente critica verso alcune frange del sistema. Che, nonostante una scuderia di stranieri, guarda molto al nostro Paese. E ai suoi artisti.
C’è stato un momento in cui la parola “pensione”, in Italia, era sulla bocca di tutti per colpa della storia degli esodati. Poi ci si è messo anche Cattelan, e tutto ha assunto risvolti un po’ più trendy. Raffaella, dopo vent’anni di galleria, hai pensato alla pensione?
«Bisogna riflettere bene prima di andare in pensione: dopo vent’anni ho ancora voglia di fare cose, anche se avrei bisogno di più tempo per le passioni. Facendo questo lavoro diventa difficile riuscire a leggere, a studiare, e questa globalizzazione ti fa sentire molto ignorante: ci sono tantissimi artisti, e molti non si riescono nemmeno a conoscere. Inoltre, con questi continui “movimenti”, quasi non ci si sente più di essere “addetti ai lavori”, perché la situazione non è mai sotto controllo. Di solito uso l’estate proprio per questo: approfondire. Perché poi, durante l’anno, tutto è così sincopato che viene difficile ritagliarsi spazi».

Domanda retorica, ma indispensabile: cos’è cambiato in questi vent’anni?
«Tantissimo, ma soprattutto negli ultimi 7, 8 anni, a causa della speculazione e dello strapotere delle case d’asta che rappresentano comunque una possibilità di vendere le opere, ma non rispettano mai i prezzi degli artisti: sono intermediari a cui non importa difendere il mercato ma vendere e prendersi percentuali. Mi sono spesso chiesta perché non si è mai riusciti a collaborare, in questo senso».
Colpa anche dei collezionisti?
«Sai, i collezionisti sono sempre più informati. Tutto, dal punto di vista di quotazioni e simili, è molto più sottomano e visibile, rispetto ad anni fa. Poi, aggiungerei, che l’ambiente dell’arte è diventato decisamente più modaiolo e a volte è un po’ insopportabile questo puro mostrarsi, mentre sarebbe più utile stare tra pochi intimi a cercare di fare un discorso compiuto. Bisognerebbe ritornare un po’ alle questioni importanti dell’arte. Per fortuna lavoro con artisti, come ad esempio Joan Jonas, che appartengono a generazioni meravigliose, che hanno fatto ricerca tutta la vita. Sono persone per cui conta ancora il lavoro. Poi certo, ci sono anche i bravi artisti che tengono più conto dell’aspetto monetario».

Cos’è un gallerista, chi è, che fa?
«Distinguiamo: ci sono i mercanti, coloro che vendono e basta. Un gallerista è un professionista che fa ricerca. Per me aprire tre spazi è stato dispendioso e oneroso ma io penso, sempre per quanto mi riguarda, che sia fondamentale condividere e costruire un “edificio” che abbia un po’ di senso, una sorta di collezione. E anche di far crescere gli artisti che lavorano con me, per poi accorgermi che funzionano davvero guardando il loro percorso al di fuori della mia galleria, dalle mostre alle fiere».
Parliamo di artisti, allora. Immagino che anche nel loro caso le cose saranno molto cambiate da vent’anni a questa parte.
«Io ho sempre visto crescere artisti lentamente ma in base a  determinati criteri; mostre, cataloghi, pubblicazioni varie. Oggi, quello che mi spaventa molto, è il boom di decine di artisti che non hanno percorso. Come una volta le aziende si costruivano in base a fatturati e lungimiranza ora, improvvisamente, i titoli balzano alle stelle senza nessuna ragione apparente. Poi ci sono mercati molto forti e più costosi del nostro, come quello del Sudamerica, con cui non possiamo competere».

Tre spazi a Milano, ma perché nessuno a Londra o a New York?
«Credo di essere una delle poche persone che ama questo Paese e in qualche modo ci crede. Il collezionismo che mi ha sostenuto finora è in larga parte italiano, e con loro ho potuto mettere insieme vere e proprie raccolte. Io sono molto radicata all’Italia, e ci sono le fiere che mi permettono di viaggiare e di interagire con nuovi collezionisti. Spostandosi si hanno buone opportunità, ma il luogo fisso è importante: qui riesco a fare progetti che mi danno soddisfazione. Anche se la galleria è vista come un luogo passato di moda, credo che invece abbia ancora la sua ragione d’essere, è un luogo di aggregazione. Se invito tre artisti contemporaneamente si crea comunità, situazione che oggi è abbastanza difficile, perché nonostante le comunicazioni immediate siamo tutti piuttosto isolati».
Quindi collezionismo italiano, ma artisti stranieri?
«Si».
Come mai hai scelto Francesco Arena per la riapertura e gli hai affidato tutti e tre gli spazi?
«Volevo dargli l’opportunità di esprimersi, visto che gli italiani non hanno sempre occasioni per farlo. L’ho lasciato libero di scegliere. Forse è un po’ il mio senso di colpa nei confronti dei nostri artisti. Quando iniziai avevo diversi italiani, ma poi con il tempo non siamo cresciuti allo stesso modo e li ho lasciati perdere. In effetti oggi oltre a Marcello Maloberti, Michael Fliri, c’è anche un ritorno di fiamma con Franco Vimercati, che presenterò a “Back to the Future” ad Artissima, e con il quale avevo aperto la mia galleria vent’anni fa».

Pensi che gli stranieri abbiano più mordente degli italiani?
«Direi di no. Ma gli americani e soprattutto i newyorchesi sono stati contingenti alla mia formazione come gallerista. Ma sono in una fase in cui sto guardando certi momenti dell’arte italiana, la sto ristudiando».
Perché gli italiani non emergono?
«Gli italiani sono penalizzati un po’ dal fatto che spesso non conoscono le lingue, ma soprattutto a causa della crisi museale degli ultimi anni, per cui non c’è stata la possibilità di concepire mostre che gli permettessero una crescita in linea con il sistema. Poi ci sono le biennali che, fatte così, non servono assolutamente a nulla per i nostri artisti».

Quindi, una soluzione, un’idea?
«Per esempio i musei devono mettersi a fare fundrasing seriamente, anche perché i galleristi non possono permettersi di pagare mostre alle istituzioni. Non è mancanza di iniziativa, ma semplicemente non se ne hanno le possibilità. Poi confido molto in Carolyn Christov Bakargiev a Torino, per rilanciare un po’ l’area museale italiana».
Quali sono i musei italiani che hanno lavorato meglio, secondo te, in questi ultimi anni?
«Senz’altro Rivoli con Ida Gianelli, ma anche Museion, Mart, Madre. Ci sono musei buoni, ma sono pochi».
E a Milano non c’è nessun museo del contemporaneo all’orizzonte…
«La situazione, però, è senz’altro migliorata. Ci sono spazi che resteranno aperti, per fortuna, anche dopo la febbre di Expo. La Fondazione Prada è un’ottima opportunità mentre il PAC, purtroppo, non ha ancora un direttore. Hangar Bicocca sta lavorando molto bene, nonostante non sia uno spazio facile. Ma ha avuto il merito, e l’avrà anche in seguito, di portare grandi artisti – con grandi retrospettive – per la prima volta in Italia, come successo anche con la nostra Joan Jonas. Ed è stata una grande emozione».
Matteo Bergamini

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