IL CONTEMPORANEO CHIUDE I BATTENTI? FORSE NO

di - 23 Dicembre 2010
La
stratificazione funzionale urbana è nettissima a Venezia. Il centro storico è
lo scrigno che contiene i tesori che tutto il mondo invidia, la città della
cultura, del turismo, e delle cose alte; la terraferma è invece il luogo del lavoro,
del cantiere e del polo petrolchimico. Nasceva dalla volontà di cambiare strada,
il progetto della Galleria Contemporaneo, messo a punto dal Comune di Venezia, mirato
a portare l’arte dove la gente è abituata solo a lavorare e vivere. A quattro
anni dall’inizio dell’attività sembra delinearsi uno stop momentaneo, dovuto
alle ristrettezze economiche. Ecco le parole del direttore Caldura…

Come recita il laconico comunicato
stampa, “cessa l’attività espositiva
della Galleria Contemporaneo nella storica sede di via Piave
”. Per quale
motivo? Cosa succederà alla sede?

Per
far fronte alle esigenze del bilancio, da un paio d’anni è in atto un processo
di cartolarizzazione di 18 beni immobili del Comune di Venezia, incluso lo
spazio di via Piave che verrà venduto sul mercato immobiliare.

E la Galleria? Si sente dire che il
progetto verrà messo in soffitta…

A
quel che mi risulta, penso di no. Vi è stata una esplicita indicazione da parte
del sindaco e della Giunta comunale nella sua unanimità di trasferire, senza
soluzione di continuità, l’attività presso il Centro Culturale Candiani, con il
quale comunque le collaborazioni della galleria sono state numerose, in
particolare dal 2006 a oggi. Forse è utile ricordare che il centro stesso aveva
avuto una fase iniziale, nel 2001, decisamente orientata alla contemporaneità
con mostre come TerraFerma e Il dono/The Gift.


Raccontaci com’è nata l’idea di fare
un centro d’arte contemporanea a Mestre.

Perché
è nella città degli abitanti e non solo dei turisti che poteva, e forse doveva,
trovare senso un progetto sull’arte contemporanea. Un progetto che non si
ponesse in sterile contrapposizione con le istituzioni veneziane, quanto
piuttosto che trovasse una propria identità culturale in grado di rendere la
Galleria Contemporaneo complementare a quanto avviene in centro storico.
Soprattutto facendone uno spazio in grado di interloquire oltre i confini del Comune
veneziano.

In quale direzione si è mossa la
galleria in questi quattro anni?

Abbiamo
puntato decisamente sulle mostre personali sia per le caratteristiche dello
spazio, sia perché penso che vada prestata attenzione alla ricerca artistica
nella sua specificità. Abbiamo sostenuto lo sviluppo di progetti espositivi
originali, così che lo spazio si caratterizzasse per una sua capacità di
produzione e proposta. Abbiamo favorito, in modo ovviamente non esclusivo, le
relazioni con artisti e istituzioni – sia pubbliche che private – nella vasta
area europea che si sviluppa dal Nordest, che costituisce da sempre una sorta
bacino storico di relazioni della città di Venezia.

E dal punto di vista espositivo?

Abbiamo
posto attenzione agli artisti nel cui lavoro fosse in atto una riflessione
aggiornata sui linguaggi del modernismo (tra i quali Igor Eškinja, Brigitte
Kowanz, Alban Haidinaj, Italo Zuffi, Bianco-Valente). Le collettive, più rare,
ci sono servite soprattutto per proporre una relazione con il territorio. Il
Contemporaneo ha affiancato agli eventi espositivi anche un’intensa attività di
conferenze, seminari, visite guidate, incontri con gli artisti, che sono
strumenti indispensabili per animare la galleria e avere un pubblico.


Ma cosa perderebbe la città senza
questo spazio?

Non
poco, considerando che Venezia aspira, con tutto il territorio, a candidarsi a
Capitale Europea della Cultura nel 2019. Vi è comunque un vivo interesse in
città sulla questione e abbiamo ricevuto il pieno appoggio di moltissimi
artisti e operatori quando per un momento non era certo cosa sarebbe
effettivamente successo e quali fossero le scelte dell’amministrazione. Penso
che anche questo abbia spinto il Comune a non lasciar perdere. Ora stiamo
attendendo che si apra una fase nuova, tra le difficoltà di un settore che
rischia di subire ulteriori pesanti contraccolpi per effetto della recente legge
finanziaria. Speriamo bene.

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  • Difficile non rimanere perplessi dinnanzi alle dichiarazioni di Riccardo Caldura.
    In quest'ultima intervista lo sentiamo sgranare un rosario di “abbiamo puntato, abbiamo posto. abbiamo...”, quasi per volerci convincere che la programmazione dello spazio mestrino non è stata per anni solamente l'illustrazione del suo gusto personale di direttore artistico, eppure chi conosce il percorso del Caldura critico-intellettuale difficilmente può nutrire dei dubbi in proposito; la scelta di porre “attenzione agli artisti nel cui lavoro fosse in atto una riflessione aggiornata sui linguaggi del modernismo” andrebbe - ovviamente - motivata con ben altre argomentazioni; ma in effetti essa esprime solo una limitata visione dell'arte e della contemporaneità.
    La definizione di Venezia come “città dei turisti” quasi si trattasse di Jesolo Lido o Gabicce Mare ben rappresenta la pochezza dell'elaborazione teorica di certi intellettuali locali.
    Non è il valore dei singoli artisti esposti che voglio qui mettere in discussione; i limiti della gestione Caldura vanno invece individuati nella monotonia delle tendenze artistiche proposte. Vediamo una programmazione tutta dogmatica, affermativa, illustrativa di concetti e idee ripetute, cupamente professorale nell'assenza di ludico e narrativo. Poche mostre a tema, tante personali firmate Caldura: evidente la censura su intere aree della produzione visiva contemporanea.
    Stando così le cose, può esser utile ricordare ancora una volta che, proprio alla galleria Contemporaneo, abbiamo visto negli ultimi anni alcuni errori teorici sorprendenti da parte da parte di chi ha cercato persino di attribuire l'altisonante definizione di “centro di ricerca” ad uno spazio espositivo per artisti mid-career. Infatti, nella presentazione delle mostra di Esther Stocker, Caldura descriveva la galleria mestrina “spazio pubblico di ricerca" ed istituzione per artisti che hanno “già maturato una significativa attività espositiva sia in spazi pubblici che privati”, in altre parole una realtà appiattita su percorsi sicuri di circuito, nomi noti, già mid-career, non certo delle scoperte inedite. Entro tale schema l'idea di ricerca culturale, escludendo a priori numerose possibilità (ruolo sociale dell'artista, underground, contaminazioni) viene ridotta ad codice stilistico immediatamente riconoscibile, chiudendo l'arte contemporanea entro i limiti di un dogma imposto istituzionalmente dall'alto, e non - quale essa in effetti è - un processo in atto. Tutto questo va letto come diretta conseguenza di evidenti carenze di metodo, un metodo capace di restituire alla creatività la sua centralità, la funzione-punto d'intersezione di numerosi segmenti della società contemporanea.

  • Difficile non rimanere perplessi dinnanzi alle dichiarazioni di Riccardo Caldura.
    In quest'ultima intervista lo sentiamo sgranare un rosario di “abbiamo puntato, abbiamo posto. abbiamo...”, quasi per volerci convincere che la programmazione dello spazio mestrino non è stata per anni solamente l'illustrazione del suo gusto personale di direttore artistico, eppure chi conosce il percorso del Caldura critico-intellettuale difficilmente può nutrire dei dubbi in proposito; la scelta di porre “attenzione agli artisti nel cui lavoro fosse in atto una riflessione aggiornata sui linguaggi del modernismo” andrebbe - ovviamente - motivata con ben altre argomentazioni; ma in effetti essa esprime solo una limitata visione dell'arte e della contemporaneità.
    La definizione di Venezia come “città dei turisti” quasi si trattasse di Jesolo Lido o Gabicce Mare ben rappresenta la pochezza dell'elaborazione teorica di certi intellettuali locali.
    Non è il valore dei singoli artisti esposti che voglio qui mettere in discussione; i limiti della gestione Caldura vanno invece individuati nella monotonia delle tendenze artistiche proposte. Vediamo una programmazione tutta dogmatica, affermativa, illustrativa di concetti e idee ripetute, cupamente professorale nell'assenza di ludico e narrativo. Poche mostre a tema, tante personali firmate Caldura: evidente la censura su intere aree della produzione visiva contemporanea.
    Stando così le cose, può esser utile ricordare ancora una volta che, proprio alla galleria Contemporaneo, abbiamo visto negli ultimi anni alcuni errori teorici sorprendenti da parte da parte di chi ha cercato persino di attribuire l'altisonante definizione di “centro di ricerca” ad uno spazio espositivo per artisti mid-career. Infatti, nella presentazione delle mostra di Esther Stocker, Caldura descriveva la galleria mestrina “spazio pubblico di ricerca" ed istituzione per artisti che hanno “già maturato una significativa attività espositiva sia in spazi pubblici che privati”, in altre parole una realtà appiattita su percorsi sicuri di circuito, nomi noti, già mid-career, non certo delle scoperte inedite. Entro tale schema l'idea di ricerca culturale, escludendo a priori numerose possibilità (ruolo sociale dell'artista, underground, contaminazioni) viene ridotta ad codice stilistico immediatamente riconoscibile, chiudendo l'arte contemporanea entro i limiti di un dogma imposto istituzionalmente dall'alto, e non - quale essa in effetti è - un processo in atto. Tutto questo va letto come diretta conseguenza di evidenti carenze di metodo, un metodo capace di restituire alla creatività la sua centralità, la funzione-punto d'intersezione di numerosi segmenti della società contemporanea.

  • A Venezia "centro storico" vivono 90mila persone. Sono abitanti VERI e non turisti, abbiatene rispetto perchè anche loro vivono nel contemporaneo pur dovendo subire i disagi del turismo di massa i cui guadagni vanno spessissimo a vantaggio della terraferma.

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