La vera casa delle libertà è a Bloomsbury

di - 27 Settembre 2012

«Quello che veramente ami è la tua vera eredità»; nei versi di Ezra Pound sembra racchiuso il segreto che la mostra “Un altro tempo. Tra Decadentismo e Modern Style” intende svelare: il segreto di un’intesa che ha come protagonisti, intellettuali, artisti, borghesi fra loro amici, ma anche parenti, e non di rado amanti. Sono gli interpreti di un tempo, che diventa, come nei versi di Wystan Hugh Auden, altro, perché incentrato su un nuovo stile di vita con «inedite modalità esistenziali», eccentriche e anticonformistiche, capaci di determinare «un’aura irripetibile – scrive Lea Vergine, curatrice della mostra insieme Francesca Giacomelli – mai più determinatasi, realizzata senza dimenticare l’ironia di una specie in via di estinzione. Autori che concentrarono i loro talenti, speziati di eleganza, nelle accese frequentazioni e negli incontri scontri».

Sono relazioni che si intrecciano, nel quartiere londinese di Bloomsbury (divenuto noto proprio in virtù di questa elite intellettuale che lo abitava), tra personaggi colti – va ricordato che molti avevano studiato a Cambridge nei due più prestigiosi college il Trinity e il King’s – in un periodo compreso fra i primi trent’anni del Novecento. E proprio per ricreare l’atmosfera del momento, il vulcanico stilista sardo Antonio Marras, ideatore dell’allestimento, ha voluto inserire le opere in un contesto estetico che evoca, appunto una casa londinese, sospesa in una calda e cangiante tavolozza.

Si entra, dopo aver sostato qualche istante seduti su un bianco divanetto posto davanti all’entrata, passando attraverso l’apertura di una parete armadio, bianca anch’essa, in perfetto stile dell’epoca. Subito si avverte che qualcosa è cambiato: la morbida moquette, le pareti avvolgenti, le luci soffuse guidano lo sguardo all’interno di un percorso estremamente curato e raffinato, che di stanza in stanza si configura come un album fotografico.

Sfogliando le pagine si fa conoscenza con le persone, ma anche con le loro abitudini, con i loro pensieri e viene voglia di guardare dietro il paravento, di fermarsi a leggere la lettera della poetessa e saggista Edith Sitwell, quella di Ezra Pound, di osservare da vicino il ricamo dello sgabello e dei cuscini e ancora di cercare le parole di Virginia Woolf dietro le copertine dei suoi libri o le riflessioni dell’artista e critico Roger Fry, senza disdegnare una sosta davanti a due piccoli armadi con due schermi che conducono nel mondo poetico di Pound e fra le note di Facade del musicista William Walton.

Si sentono i respiri, si avvertono le emozioni, si percepiscono anche le tensioni perché si sa che lì tutto ciò che accade ha origine dall’indissolubile legame fra arte e vita. È dunque la mescolanza di personalità illustri e individui originali a suggerire l’atmosfera della mostra dove protagonisti sono, fra gli altri, Virginia Woolf, il pittore Duncan Grant che, pur omosessuale, ebbe una lunga relazione con Vanessa Bell (sorella di Virginia) da cui nacque Angelica, libertariamente riconosciuta dal marito di Vanessa, Clive Bell. E ancora molti altri artisti cosmopoliti ed eccentrici, noti e meno noti, fra i quali poeti Ezra Pound, Hilda Doolittle e T. S. Eliot, lo scultore Henri Gaudier-Brzeska gli scrittori Edward M. Forster, Ford Madox Ford, James Joyce e David Herbert Lawrence, ma anche l’economista John Maynard Keynes, per un certo periodo amante di Duncan Grant, e il fotografo Cecil Beaton.

Il loro è un esperimento di vita in comune, che per un trentennio, dal 1908 al 938, ha come fine la ricerca del bene, che nulla ha a che vedere con la massificazione, ma solo con l’arte, con il bene supremo dell’amicizia, con i rapporti personali definiti da E. M. Foster  «l’unica permanente vittoria della nostra strana razza sulla crudeltà e sul caos». Proprio per questo non è una mostra da guardare, ma da sentire, da cogliere nelle sfumature più profonde. L’obiettivo è la conoscenza, senza pregiudizi, con la consapevolezza invece – prendendo ancora spunto dai versi di Pound – che dalla bellezza «qualcosa deve uscire» e che «aver fatto in luogo di non aver fatto» non è vanità.

Un centinaio di opere, dunque, sculture, dipinti e disegni, ma anche oggetti d’uso, grafica editoriale, libri, fotografie e arredi, offrono un’originale lettura dei luoghi e dei protagonisti di un eterogeneo mondo creativo. Sono oggetti, il cui l’interesse non sta tanto nel valore artistico, quanto piuttosto nella capacità evocativa, poco conosciuti fuori dall’Inghilterra, che il Mart di Rovereto espone per la prima volta fino al 13 gennaio.

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