James Hillman esegue dipinti dalle economie espressive di gesto e colore alla Robert Mangold, di straordinaria precisione e rarefazione quasi illusionistica, nonostante l’accentuata vocazione plastica. Si tratta di tele sagomate di legno e altri supporti, di grandi dimensioni, sviluppate da artista-artigiano qual è, attraverso una tecnica semi-meccanizzata, analitica e sistematica quanto quella di Jonas Weichsel, che guarda con interesse. L’esito sono “pitture-oggetto” dal film pittorico ottenuto da macchine per la stampa delle cartiere o dei giornali, in cui la carta gira mentre l’artista dipinge a olio usando dei rulli. Egli stende un colore luminoso, ma più piatto e omogeneo, trasformando il supporto neutro in un oggetto artistico dotato di propria autonomia e tridimensionalità , in grado di far coincidere simultaneamente l’oggettività della struttura con la soggettività della sua percezione.
Nelle sue “pitture-oggetto” da un lato c’è la scultura come archetipo della forma pittorica, dall’altro la forma pittorica come archetipo plastico. A un esame più attento, la sua pittura è la traduzione di esperienze sensoriali vissute, sul crinale ambiguo ricompreso nella linea d’ombra tra astrazione e figurazione, forma e funzione, bellezza ideale e responsabilità mondane, cultura alta e bassa, colori apparentemente uniformi, in realtà dalle molteplici sfumature che si mescolano l’una nell’altra. Uno spazio incerto che sta a metà tra la rappresentazione di idee e costruzioni mentali, memorie di un passato familiare spazzato via dalle tragedie della storia contemporanea e la definizione di marine e paesaggi industriale quanto di impronta bucolica del basso Lazio, nel cuore della Ciociaria, a Isola del Liri.
L’attenzione di Hillman, che tiene sempre bene a mente la lezione del suo illustre connazionale Anthony Caro (che “addomesticò” la materia bruta nei lavori in acciaio, gli Steel) tanto quanto quella di Robert Irwin, è sempre stata rivolta all’estensione spaziale dell’oggetto pittorico, collocato nello spazio reale, a muro, con o senza base/piedistallo. Riconoscendo la natura “contingente” dell’arte, ovvero il suo inscindibile legame con l’ambiente circostante. Non è un caso, pertanto, che l’artista abbia prestato sempre estrema attenzione all’osservatore che, muovendosi davanti alla sua opera, interagisce direttamente con il manufatto dipinto. Diventando così, nel movimento stesso anche percettivo, con tutto il carico di illusioni ottiche che comporta, parte del processo stesso.
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