Categorie: Libri ed editoria

libri_saggi | Il tempo dei frammenti

di - 7 Aprile 2008
Uno degli interventi di Slavoj Žižek che la casa editrice de “il manifesto” ha raccolto sotto il titolo di Distanza di sicurezza. Cronache dal mondo rimosso -talvolta veri e propri scritti d’occasione ed editoriali scritti “a caldo”- è dedicato a Leni Riefenstahl e alla sua “perfezione”. La tesi dell’intellettuale sloveno, che naturalmente si può applicare ben oltre il caso della regista tedesca, è che “non c’è ‘fascismo avant la lettre’, perché è la lettera stessa (la designazione) che dall’insieme degli elementi fa nascere il fascismo vero e proprio”. Perché si possa parlare di fascismo è dunque necessario che siano emerse contemporaneamente alcune caratteristiche; soprattutto, è indispensabile che queste non siano limitate al piano retorico, ma subiscano una “torsione concreta”. In altre parole, il fascismo è l’attuazione di un programma.
Si potrebbe tentare una lettura “sociale” dell’arte a partire da questa definizione. E rintracciare conferme e smentite, in particolare concernenti il passaggio dal moderno al contemporaneo, sul crinale della Seconda guerra mondiale e della conseguente spartizione dell’Europa. Insomma, Storia e geografia, come sottotitola il suo libro Catherine Millet, fondatrice e direttrice di “Art press” e nota ai più in Italia per La vita sessuale di Catherine M., romanzo che ha goduto di una certa diffusione. Ora, che un libro titolato Arte contemporanea venga ristampato con ben poche varianti a nove anni di distanza dalla sua prima pubblicazione (1997, 2006², traduzione italiana 2007) è già un dato interessante. Che situi la nascita della suddetta arte contemporanea a metà anni ’40, oppure nei postmoderni anni ’80, o ancora nei primi ’90, e che comunque rammenti l’“ampio consenso sulla collocazione della data di nascita dell’arte contemporanea nel periodo compreso tra il 1960 e il 1969” -turbinìo di opinioni che derivano dal lavoro preliminare la stesura del libro, consistente in numerose interviste ad “addetti ai lavori”- rischia di essere piuttosto disorientante.

Ma ciò che turba, sebbene si tratti di un’assonanza e nulla più (?), è la considerazione relativa al passaggio dalle avanguardie “storiche”, i cui esponenti “avevano già rabbiosamente fatto a pezzi le convenzioni e giocato agli apprendisti stregoni”, al decennio che avrebbe aperto “uno spazio di libertà di cui non avevano certo goduto i pionieri”. Conclusione: “Nel riallacciarsi alle avanguardie di inizio secolo, i movimenti degli anni Sessanta si presentano come la loro realizzazione”. Non solo. Questa attuazione porta con sé anche la propria legittimazione, comunicata a diversi livelli, dal mercato alle acquisizioni museali (con buona pace di tanta ingenua retorica sulla purezza dell’arte e la sussunzione operata dalla finanza: quale miglior desacralizzazione del capolavoro se non il cartellino col prezzo apposto al suo fianco?). In altre parole, “l’arte contemporanea opera una saldatura laddove la modernità segnava una rottura”, almeno in apparenza. E ancora: l’abbandono della teleologia comporta alcune controindicazioni, in primis una sorta di collasso temporale nell’imbuto del presente, con effetti quali l’“amnesia di tipo parziale, selettivo” e l’ipoteca sul futuro, come ha insegnato Gillo Dorfles; e un secondo collasso, quello dell’“opacità del codice simbolico”, per cui si può (?) dire che Cattelan ha impiccato alcuni bambini in una piazza milanese.

Cosa incarna l’attuazione del programma moderno? Millet cita Cyril Jarton, e in particolare rammenta l’interazione fra l’accezione artistica e quella linguistica del termine performativo. In questo duplice senso, si può dire con Jarton e col nostro dimenticato Pareyson che “formare significa fare, ma un fare che mentre fa, inventa il suo modo di fare”. Insomma, è l’opera d’arte contemporanea stessa che scrive e attua il proprio programma; e questo programma è l’opera. Questo carattere autoreferenziale e autopoietico -Szeemann lo chiamava mitologia individuale e ne ha fatto il soggetto della quinta Documenta- coinvolge l’ontogenesi come la filogenesi dell’opera. Ovvero sia la progettualità che conduce e costituisce l’opera stessa, sia la “tradizione” nel solco dalla quale quella stessa progettualità emerge: “L’ambiente artistico, trascinato nella fuga in avanti delle avanguardie, ha finito per stabilizzarsi su una velocità di crociera che ammette tutte le tendenze contemporaneamente”. È il modello del traditore teorizzato da Bonito Oliva e attuato in Italia in primo luogo dalla Transavanguardia.
Se dunque si può dire che il futuro non è più quello di una volta, almeno per ora lo stupore si è rifugiato nei sempre più ridotti spazi dell’altrove. Per ciò il critico diviene curatore e lo storico, a detta di Hans Belting, si trasforma in antropologo. Con piglio più o meno partecipante, osserva la nascita dell’opera, la sua gestazione, il suo farsi.

Viste le tesi esposte, la disorganicità del libro di Catherine Millet diventa un manifesto, un raddoppio delle tesi stesse. Ma mai quanto la forma quasi aforistica del volumetto di Bruno Pedretti, La forma dell’incompiuto. Quaderno, abbozzo e frammento come opera del moderno. Volume erudito, meta-citazionista, che zampetta con agilità fra discipline, muse, tempi e modi dell’arte, della filosofia e della sophia. Per mostrare, più che dimostrare, l’estrema contemporaneità (e dunque modernità e antichità) della “forma incompiuta”. Che solo in un’ottica teleologica può venir considerata una irrilevante bozza del prodotto finale. Le conseguenze di tale sguardo rinnovato sono innumerevoli: concernono ad esempio il mercato crescente e fiorente dei disegni, dei diari, degli appunti, finanche dei promemoria (l’Appuntamento con l’urologo di Robert Gober), oppure possono riguardare la riflessione più teoretica sul rapporto fra mano e mente, sulla scia di Focillon. Non è naturalmente possibile sintetizzare linearmente le divagazioni intrecciate alle quali Pedretti espone il proprio lettore. Questa stessa possibilità testimonierebbe dell’insuccesso del libro. Ciò che però va almeno accennato è che tutto questo discorso, più o meno apertamente vitalistico, che ha il suo perno nella magnificazione dell’esperienza nel suo darsi o, in altri termini, dell’opera nel suo farsi, altro non è che una nuova -e nemmeno tanto- mitologia “sintomatica” del nostro tempo.

A questo punto, unendo all’obsolescenza del kantiano “disinteresse” dell’arte il carattere sintomatologico di quest’ultima nella sua declinazione contemporanea, non pare così azzardata l’ipotesi letteralmente delirante di Roberto Cascone, noto alle cronache per essere il fondatore del “Cattelan Funs Club”. Ossia utilizzare l’arte contemporanea come terapia. Aristotelico.

marco enrico giacomelli


I volumi segnalati:
Roberto Cascone, ArTherapy. Curarsi con l’arte contemporanea, Giraldi, pp. 130, € 11
Catherine Millet, L’arte contemporanea. Storia e geografia, Scheiwiller, pp. 176, € 16
Bruno Pedretti, La forma dell’incompiuto, Utet, pp. 100+12 t.f.t., € 11
Slavoj Žižek, Distanza di sicurezza, Manifestolibri, pp. 174, € 18

*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 48. Te l’eri perso?

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