Categorie: Personaggi

L’intervista/Piergiorgio Robino | La fine del prodotto medio

di - 23 Marzo 2014
Lo studio Nucleo esiste da quindici anni e non ha mai collaborato con un’azienda di design. Con un inizio segnato da un fallimento – «nessuno capiva le nostre autoproduzioni» – invece di abbandonare, hanno cambiato direzione, trovando nel mondo dell’arte il giusto contesto: «Il gallerista è il nostro migliore interlocutore », affermano. Sono presenti in quattro gallerie di art design del mondo, con cui riescono a vendere opere con prezzi a quattro zeri – ma non hanno mai abbandonato Torino, «la città della disillusione totale: se un progetto funziona qui, funziona ovunque» e dove passano gran parte del tempo in laboratorio a sperimentare tecniche e materiali per autoprodursi i pezzi da esporre alle fiere. In attesa di esordire alla Collective Designfair di New York, che si aggiunge all’appuntamento ormai fisso di Design Miami di giugno, preparano la loro prima personale all’Istituto Italiano di Cultura a Parigi in apertura il 25 marzo. Incontro Piergiorgio Robino, frontman e fondatore di Nucleo.
Una residenza e una mostra, ormai siete dei veri artisti.
«Sì, è una piccola retrospettiva dal titolo “Manifesto”, che ruota intorno all’accezione del termine: manifesto come epifania dei nostri progetti, come dichiarazione della nostra filosofia, e come oggetto ultimo del lavoro che stiamo facendo in residenza».
Dal vostro esordio ad una retrospettiva è parecchia strada: come ti senti cambiato?
«È cambiato il mondo. La differenza è che quello che facevo 15 anni fa non aveva una riconoscibilità, io ero quello che faceva cose strane. La visione del design era chiusa in schemi molto precisi, il punto di vista era diverso. Ma il mio lavoro non è veramente cambiato. Forse ora sono più attento ad alcuni aspetti; si chiama esperienza».
Ti sei smaliziato, insomma.
«Esatto, ma l’idea di fondo rimane la stessa. Quando siamo usciti con “Terra” la maggior parte delle persone non sapeva collocarla».
In quell’occasione ti sei rivolto anche una dura autocritica. Ti cito: “Con “Terra” volevamo dimostrare la nostra capacità progettuale, che pensavamo avrebbe portato clienti. Sbagliando, perché interessa comprare i nostri oggetti più che la nostra potenzialità progettuale”. Dicendo così sarebbe stato per voi plausibile rivolgervi al design seriale. Invece hai virato verso una nicchia di pochi danarosi clienti, i collezionisti.
«Come dicevo, è cambiato tutto da allora, sono davvero mutati scenari incredibili. E poi cancellandosi la classe media, è stato cancellato il prodotto medio. Quindi la scelta di fare prodotti per una classe più elevata, è anche perché il marchio medio è scomparso».
Ma questa è una considerazione che puoi fare adesso, o avevi già intuito lo scenario?
«Allora, vado indietro: al mio esordio, quando presentavo i miei lavori, mi si diceva: “Troppo artistico”. Il mio è sempre stato un lavoro giudicato artistico, che non funzionava nel contesto industriale, che non vendeva. Inoltre, facevo prodotti con un’elevata componente di ricerca, che significa sbagliare o rischiare. Un sacco di cose che ho provato a fare non sono mai uscite: in un anno presentai 165 progetti a quasi tutti le aziende italiane, e non abbiamo piazzato un progetto».
E non ti sei demoralizzato? Questo vostro atteggiamento di resistenza è interessante.
«In realtà mi sono demoralizzato molto».
E perché non hai cambiato ? Cosa ti ha fatto dire: “Non sarò mai un designer seriale”?
«Non necessariamente il mio è un design non seriale. Però è vero che presuppone una cosa che piace a pochi: fare ricerca e investire. Molte aziende italiane hanno cercato di avere l’uovo e la gallina insieme, e così difficilmente puoi garantirti un futuro. Invece le aziende solide internazionali si sono costruite negli anni perché hanno fatto l’uovo e allevato bene la gallina».
Nel 2010, in un incontro improbabile organizzato da Novembre, con Duilio Forte dichiaravate guerra ideologica all’industria, e meno di un anno fa a Miami Design, citavi una lettera d’indipendenza dall’industria: ti senti così contro l’approccio industriale?
«Sono contro l’industria quando non fa nulla. Lo feci già nel 2001, presentandomi al Salone Satellite (del Mobile di Milano) con una linea di mobili di ghiaccio: una critica feroce al consumismo facile».
Sembra però che tu abbia combattuto il sistema dall’interno: eri spesso al Salone.
«Lo avrei combattuto ancor di più, ma me lo hanno impedito».
Ovvero?
«Durante uno degli ultimi anni di partecipazione al Salone, mi ero lamentato tramite una lettera con l’allora Presidente Cosmit anche di un’evidente discriminazione che la fiera faceva nei confronti degli italiani : non capivano il lavoro dietro ad un progetto come il nostro, e poi, quando arrivano gli olandesi con Marten Baas che brucia sedie, li acclamano come geni rivoluzionari».
Questa è la nostra esterofilia. In ogni caso, ora è evidente il carattere costante della vostra produzione, una continuità di approccio per cui siete riconoscibili, che vi ha portato dall’autoproduzione al pezzo unico da galleria: come vi siete conosciuti con Galerie Italienne di Parigi, la vostra prima galleria?
«Tutto parte dalla fondazione Sandretto Re Rebaudengo. Patrizia Sandretto è sempre stata attenta al territorio, e nel 2008 mi invitò a presentare “Primitive”, concepito da subito per esser art design. Da lì in poi ho individuato una serie di gallerie alle quali ho proposto progetti, e con cui oggi collaboriamo».
E che sensazione ti ha dato lavorare con una galleria?
«Una sensazione molto positiva, sentivo di aver trovato il giusto modo di lavorare.
E poi, quando il pezzo esposto in una collettiva è stato subito venduto, devo ammettere che è stata una forte emozione».
Quindi la galleria è importante perché vi mette in contatto con committenti difficili da intercettare?
«La vedo diversamente. La galleria implica un certo tipo di mestiere. Se lavorassi da solo vorrebbe dire cambiare mestiere ed entrare in situazioni economiche, gestione del credito eccetera che in questo momento non mi interessano; preferisco tenere la concentrazione sulle cose che disegno e produco».
Secondo te, è l’artigianato di lusso ciò che colpisce dei vostri pezzi?
«Credo principalmente sia il fatto che l’oggetto non sia prodotto con una macchina, che mostri sempre una qualche imprecisione. Solo per la linea “Wood fossil” siamo ricorsi ad una macchina, ma le abbiamo imposto di fare imperfezioni».
Ho l’impressione che, nonostante il gran lavoro di ricerca e artigianato, i vostri lavori piacciano perché belli.
«No, francamente non vedo così i miei oggetti. Io continuo a sentirmi un interprete del materiale, lascio parlare il materiale; forse l’estetica è una conseguenza. Siamo artigiani contemporanei: un oggetto progettato al computer e tradotto con le mani».
In ogni caso l’aspetto tecnologico è prepotente nei vostri progetti. E mi sembra che in questo, la cultura progettuale di Torino segni profondamente la vostra ricerca, penso al recente progetto della lampada Aurora con la piemontese Cainodesign.
«Sì, probabile. Caino (brand del gruppo STV che produce telai serigrafici, ndr)  è un’azienda che ha trasformato la sede italiana in laboratorio di ricerca, dirigendosi verso nuove attività, per continuare a lavorare sul territorio e trovare nuovi mercati».
In questo trovo straordinaria e rara la vostra capacità di evolvere il sapere.
«Sai cosa mi mette sempre un’aria di tristezza? Quando vedo mancare l’intenzione di provarci. Sai che le aziende che ho incontrato con i miei 170 progetti avrebbero davvero avuto la possibilità di cambiare? Ma semplicemente non la vedevano. Per questo definisco il mio design “dell’impossibile”: è come se si fosse cancellata la possibilità di fare progetti in modo diverso. E a me, nel contesto della globalizzazione, interessa lo slow food. Cioè, non è vero che non si possono fare certi tipi di prodotti, o che sia necessario entrare sempre nella logica seriale. È un fatto di intenzione principalmente.
Oggi, secondo te, i tuoi pezzi vengono esposti o usati dai tuoi collezionisti?
«Alcuni li usano»
E tu cosa faresti?
«Per me le cose devono essere usate. Come dire, se avessi una Ferrari ci andrei al bar ogni mattina, sarebbe consumata e con le righe, proprio come la mia auto. Le cose che sono lì da tenere, da guardare non esistono».
Quindi, se mettessi una tovaglia su uno dei tuoi tavoli non ti infastidirebbe?
«Da morire».
Questa è una strana conseguenza di quello che fate: se apri all’uso le tue opere, questo rischio c’è. L’uso ideale dei tuoi pezzi allora, qual è?
«Che vengano usati per quello per cui sono stati fatti».
Ma i tavoli senza tovaglia.
«Concedo la tovaglietta americana».

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