Questo amore è una camera a gas

di - 7 Maggio 2013
Com’è difficile per gli uomini amare le donne! Luciana Litizzetto lo ha ricordato all’ultimo San Remo: «Se un uomo ti picchia, non ti ama: è uno stronzo!» Più o meno nelle stesse ore Pistorius sparava alla sua stupenda Reeva, ha detto, scambiandola per un ladro. Ma quante altre ne succedono  fuori dai riflettori delle celebrities. Eppure quest’amore, cantato dai trobadori medievali a Verdi, Puccini, fino ai giorni nostri, come la “gioia che mai non fina”, come l’esperienza fondamentale che riempie e da senso alla vita, è il destino che si augura a tutte e tutti.
Forse questo zelo, nasconde una difficoltà insormontabile, quindi è meglio farne un simbolo  dell’unica felicità possibile. Così le botte o le pallottole verranno inserite nella drammatica deviazione di un amore troppo grande!  E come diceva la canzone “quest’amore è una camera a gas”.
Tutti i giorni i giornali raccontano di morti e violenze in nome dell’amore. Sono sempre le donne a finir male: perchè gli uomini sono più forti fisicamente? Non solo. In migliaia di anni si sono costruiti un’architettura difensiva rispetto alla difficoltà dell’amore, dove le donne occupano sempre il mezzanino, l’ala secondaria, la dependance. Chi domina è il padrone: in quella torre d’avorio o d’argilla la presenza delle donne è vincolata all’amore, ma senza altri diritti che quelli della passione, che, a differenza di quanto dicevano i poeti trobadori, finisce e, quindi, chi ha le chiavi di casa ha il diritto di aprire la porta. Per scacciare o per accogliere qualcun’altra.
Date le reazioni quotidiane di questi anni, questa casa dell’uomo, che con molta falsità si è raccontato fosse il regno della donna, è forse la metafora della difficoltà che gli uomini hanno coltivato rispetto all’amore per le donne. Invece di domandarsi il perchè, di tentare un’invenzione diversa, la reazione, fino a pochi decenni fa sancita dalla legge, è stata quella di uccidere (delitto d’onore). Quando le cose si complicano non c’è altro che l’eliminazione di quell’amore per il quale si era pronti a sacrificare la vita. Invece poi, non si sa come, la si toglie all’altra. Tutte queste cose le conosco da tempo, ma sono veramente allibita che non finisca mai questa love story, con il delitto finale.
Ci pensavo anche a Rivoli alla mostra di Ana Mendieta, curata da Beatrice Merz e Olga Gambari. Anche lei ci ha rimesso la vita, non si sa se per un amore troppo grande o perchè conosceva quanto è difficile l’amore. Ma guardando oggi le sue opere, ricordando la notizia della sua caduta da 34° piano, i dubbi sul marito, il fantastico minimal Carl Andre, fanno sì che tutto rientri in circolo.
Accanto alla mostra c’è un film che raccoglie testimonianze e ricordi di amici, amiche, sorella, colleghi che raccontano frammenti, porzioni specifiche della vita di Ana. Carl Andre è stato assolto, ma tra le voci e le emozioni di chi ricorda permane il dubbio. Non mi interessa stabilire chi ha ragione, il dubbio non riguarda come è avvenuto il salto, ma la difficoltà di interagire con una donna amata, moglie, artista che per la sua breve, ma intensa vita ha raccontato all’amato e a tutti e tutte, la difficoltà di essere donna e di intrecciare rapporti, fuori da quell’architettura costruita nei millenni dagli uomini.
Qui neanche Carl Andre è stato capace di seguirla, lo dico a livello simbolico: non mi interessa sapere le difficoltà sentimentali diaristiche di questa coppia, quello che è dirimente è il nodo cruciale e incendiario che Ana voleva mostrare al mondo. Si è molto parlato della sua decisione di indagare l’aspetto, tribale, magico ecc, ma è molto di più è l’origine che tuttora emerge nelle relazioni.
Ana Mendieta non ha indagato la terra dal punto di vista antropologico, ma da quello di una visione diversa del rapporto uomo–donna, che pure nella terra è compreso. Diceva: «Credo nell’acqua, nell’aria, nella terra. Sono tutte divinità». E tra queste divinità lei si autoritrae, assumendo nel suo corpo quello dell’acqua, della terra, dell’aria: diventa un tutt’uno. In quel momento avviene la lettura antropologico-magica, ma io la vedo diversamente.
Oggi, e con i miei occhi, ritrovo una forma originaria dell’immagine della differenza sessuale. Nel senso che non è una sovrastruttura culturale, ma «la partizione reale del regno dei viventi» come scrive Luce Irigaray in Etica della differenza sessuale (Feltrinelli – Milano 1985). Il maschile e il femminile ci sono in tutti.
Nel momento in cui Ana Mendieta incorpora gli elementi che sostengono la vita nel regno dei viventi, non compie un balzo a ritroso nell’elemento primordiale, ma segna la sua presenza individuata e sessuata interna a quel regno. Quando lei lo ha fatto il movimento femminista in America era forte e annunciava che la presenza delle donne nel mondo, non dipendeva dalla democrazia, ma dalla vita stessa.
Anche i meravigliosi disegni che Ana traccia sulle foglie, sugli alberi, e di cui ci sono esempi bellissimi al Castello di Rivoli, parlano di un’alleanza tra i viventi, che non sono neutri come si insiste spesso anche oggi quando si parla dell’arte, ma hanno specifiche identità, e la sua che emerge nel momento iscrive il suo ritratto.
Detto questo ci sono immagini che turbano molto, perchè ci riportano alla natura come cultura, e al dominio patriarcale che aveva nascosto l’origine della partizione, estromettendo le donne. Da lì molte sono state le censure, ma quella del rogo delle streghe è la più drammatica. Le streghe venivano bruciate anche perchè opponevano una conoscenza delle erbe mediche che era ritenuta magia del diavolo, visto che i medici erano uomini. Le figure delle donne in fiamme di Ana Mendieta non possono non ricordarcelo: commuovono e addolorano. Ma in quel fuoco c’era anche la sua determinazione a bruciare gli impedimenti, a uscire dal recinto in cui per secoli e secoli erano state comprese le donne.
Questo è il punto nevralgico, che sentiamo ardere nella biografia raccontata dai suoi amici e parenti.
Questo, allora come oggi, rende difficile agli uomini amare le donne. Non dipende dai misteri straordinari che fanno parte delle singole identità dell’uno e dell’altra, ma la libertà di esistere di una donna. «Non penso che morte e vita si possano superare. Tutti i miei lavori sono su questi temi, eros, vita e morte». Lei diceva così, e a me piace ricordarla come uno dei due poli del regno dei viventi.

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