Banksy, Royal Courts of Justice di Londra, 2025
Nel corso del 2025, il mondo dell’arte è stato attraversato da una serie di eventi che, pur diversi per contesti e argomenti, sembrano condividere un tratto comune: l’emersione di sfrangiature politiche sempre più evidenti nel tessuto elastico dei processi culturali. Dalle pressioni governative sui musei statunitensi alle proteste contro il genocidio in Palestina nelle grandi istituzioni europee, dalle censure rivolte alle opere fino ai conflitti sulla governance, il 2025 ha reso evidente quanto il campo della cultura sia tornato a essere – ma è sempre stato – uno spazio di scontro ideologico nel quale la produzione simbolica rivela i suoi risvolti più concreti, attivi nella percezione del quotidiano e nell’immaginazione del possibile. Dunque, un terreno tutt’altro che neutrale, dando ormai come ufficialmente riconosciuto il ruolo della cultura come espressione di soft power, strumento attraverso cui il potere imbastice narrazioni polarizzanti, legittima visioni del mondo divisive a scapito di altre e consolida consenso e relazioni internazionali ma anche, per converso, dispositivo potenzialmente antagonista, capace di mettere in crisi quei medesimi assetti.
Più che singoli incidenti di percorso e al di là del cherry picking, questi episodi delineano evidenti linee di tensione strutturali, che possono essere lette come macro-aree di un cambiamento in atto, in cui l’arte e le istituzioni culturali tornano a essere luoghi sovraesposti, oggetti di contesa sensibili, volubili allo spirito del tempo. Nel loro insieme, questi episodi raccontano un anno in cui l’arte ha smesso definitivamente di essere percepita come spazio separato, aprendosi come un fronte di conflitto trasversale e sempre meno protetto.
Musei, biennali e istituzioni culturali si trovano ormai frequentemente a dover negoziare pubblicamente la propria autonomia in un contesto segnato da polarizzazione politica ed economica, crisi geopolitiche e sociali e nuove forme di pressione ideologica – ne scriveva anche Bart van der Heide in questo articolo. E non si tratta solo dei margini della libertà artistica, sempre piuttosto labili, ma di una ridefinizione profonda e sistemica del ruolo della cultura nel presente, del suo significato e delle sue diramazioni. Insomma, la domanda aperta nel passaggio da un anno all’altro è: di cosa parliamo veramente quando parliamo di cultura?
Negli Stati Uniti, il rapporto tra potere politico e grandi istituzioni museali si è fatto esplicito e conflittuale. Lo scontro tra la Casa Bianca e lo Smithsonian Institution, culminato nella messa sotto accusa di un’esposizione ritenuta “razzista” nei confronti della cultura statunitense, ha segnato un punto di svolta nel dibattito sull’autonomia dei musei federali. A questo si è aggiunta la chiusura forzata della National Gallery of Art di Washington durante lo shutdown governativo, che ha mostrato in modo plastico come l’arte possa diventare vittima collaterale di crisi politiche e finanziarie.
Nello stesso contesto si inserisce la decisione della National Gallery di interrompere i programmi dedicati a diversità, equità e inclusione, segnale di un cambiamento di rotta che riflette direttamente il clima politico nazionale. Le dimissioni di Kim Sajet dalla direzione della National Portrait Gallery, dopo l’attacco pubblico di Donald Trump, rafforzano l’idea di una pressione diretta sulle leadership culturali, sempre più esposte a interferenze politiche e mediatiche.
In questo quadro rientra anche il caso italiano della lettera aperta degli storici dell’arte indirizzata al Ministero della Cultura, che ha riportato al centro il tema del lavoro culturale, delle graduatorie non assorbite e della responsabilità pubblica verso i professionisti del patrimonio. Un episodio che va letto, da una parte, come vertenza settoriale, dall’altra, nell’ambito di una più ampia dinamica di controllo politico delle istituzioni culturali: il potere non si esercita soltanto attraverso la censura dei contenuti o la nomina dei vertici, ma anche — e forse soprattutto — attraverso la gestione della filiera dell’accesso al lavoro, la precarizzazione strutturale e il blocco delle immissioni. In questo senso, il mancato assorbimento di professionalità già selezionate diventa uno strumento silenzioso ma efficace di governo del settore, incidendo sulla trasmissione delle competenze, sulla continuità istituzionale e sulla stessa capacità critica del sistema culturale pubblico nel lungo periodo.
Un secondo fronte riguarda la censura esplicita o implicita delle opere e dei simboli. A Londra, l’intervento pro Palestina di Banksy sulla facciata del Royal Courts of Justice è stato immediatamente coperto, aprendo interrogativi non solo sulla libertà di espressione, ma anche sull’effettiva tenuta dell’anonimato dell’artista. Sempre nel Regno Unito, le proteste all’ICA di Londra contro i finanziamenti di Bloomberg Philanthropies hanno portato alcuni artisti a disertare una mostra, trasformando l’istituzione in un campo di contestazione etica.
Sul piano simbolico, la rimozione della scritta Black Lives Matter a Washington DC ha rappresentato un gesto di riscrittura dello spazio urbano e della memoria recente, avvenuto sotto la minaccia di tagli ai finanziamenti pubblici. Parallelamente, ad Atene, l’attacco vandalico alle opere di Christoforos Katsadiotis da parte del deputato di estrema destra Nikolaos Papadopoulos ha reso evidente come la censura possa assumere anche forme violente e dirette, sostenute da una retorica politica che rivendica apertamente l’intervento sull’arte.
Il conflitto israelo-palestinese ha attraversato in modo trasversale festival, biennali e istituzioni. Alla Biennale di Venezia, il cinema ha lanciato un appello esplicito sulla guerra a Gaza, con una lettera firmata da centinaia di professionisti del settore. Nello stesso solco si colloca la vicenda del Padiglione australiano alla Biennale Arte 2026, con l’esclusione — e successiva reintegrazione — dell’artista Khaled Sabsabi e del curatore Michael Dagostino a seguito di pressioni politiche legate alle posizioni critiche verso Israele.
Questi episodi mostrano come le grandi manifestazioni internazionali siano sempre meno spazi “neutrali” e sempre più luoghi in cui le tensioni geopolitiche si riflettono direttamente sulle scelte – e sulle possibili divergenze – curatoriali e istituzionali.
Infine, il rapporto tra politica, istituzioni e lavoro culturale emerge nelle crisi interne ai musei e nelle proteste dal basso. Il caso del Museu Afro Brasil di San Paolo, istituzione culturale simbolo della memoria e della produzione artistica afro-brasiliana, con l’uscita di Hélio Menezes dopo appena un anno, ha aperto un dibattito sulla governance museale e sulle pressioni politiche che attraversano le istituzioni dedicate alle culture marginalizzate.
A queste tensioni si affiancano nuove forme di attivismo, come lo sciopero dei visitatori organizzato dagli ambientalisti di Extinction Rebellion al Rijksmuseum di Amsterdam, che ha svuotato simbolicamente il museo attraverso la manipolazione del sistema di prenotazione. Anche il caso della mostra di Marco Evaristti in Danimarca, con i maialini lasciati morire, solleva interrogativi sul limite tra provocazione artistica, responsabilità etica e intervento pubblico.
Il mondo è la grande casa della musica che accoglie tutti: dalla neopsichedelia al tarweedeh palestinese, tra afrobeat e rock-punk-avantgarde,…
Fondato da Kami Gahiga e Kaneza Schaal, il GICA inaugura a Kigali: nella capitale del Ruanda, un modello di istituzione…
Il Ministero della Cultura ha reso noti i nomi dei candidati ammessi ai colloqui per la direzione di 14 musei…
Ispirato ai giardini storici di Suzhou e alla tradizione cinese, il nuovo museo d’arte contemporanea firmato Bjarke Ingels Group fonde…
Tra ceramiche e e fantascienza speculativa, proponiamo un itinerario tra le mostre più interessanti da visitare a Miami per iniziare…
Legge di Bilancio 2026, cosa cambia per cultura e turismo, dai nuovi fondi per musei e creatività al Bonus Valore…