06 novembre 2007

Il fascino della divisa Wien, Kunsthalle

 
Un art uniform project studiato per il quindicesimo anniversario della Kunsthalle di Vienna. L’ideatore è Antonio Riello. E l’Austria è soltanto la prima tappa. Perché altri musei europei saranno investiti dalle uniformi, sempre differenti, disegnate dall’artista vicentino. Che ci racconta a viva voce cos’è Be Square!...

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Be Square! è un progetto ideato da Antonio Riello (Marostica, Vicenza, 1958). Progetto che partirà dalla Kunsthalle di Vienna il prossimo 10 novembre, dando il nome ai festeggiamenti per il quindicesimo anniversario dell’istituzione austriaca. L’installazione, se così si può definire, interviene al di là degli spazi espositivi del museo, portando l’arte in quei luoghi usualmente ritenuti accessori, come il bookshop, la caffetteria, le toilette o i parcheggi. Il progetto Be Square! crea una serie di divise da far indossare a tutto il personale del museo. A ogni replica, Be Square! studierà per ogni singolo museo europeo uno specifico progetto, che coinvolgerà tanto l’andamento quanto il carattere e l’anima della singola istituzione. Quest’idea di “vestizione”, di human wrapping alla Christo, una living sculpture alla Gibert & George, è il frutto di una stretta collaborazione fra l’artista e lo staff che lavora e vive costantemente negli spazi allestitivi. Nel caso della Kunsthalle viennese, l’idea è quella di realizzare degli outfit ispirati al British Style anni ‘30. Outfits che diverranno le uniformi ufficiali del personale del museo per i prossimi anni, oltre la fine delle due settimane di celebrazioni per i suoi quindici anni.

Antonio, racconta: da quale idea parte il tuo progetto?
In un museo diventano sempre meno importanti gli spazi serventi, per dare sempre più risalto agli spazi serviti. A quelle parti, a quelle stanze come il bookshop, le toilette, la caffetteria, che ormai sono luoghi sempre maggiormente connotati, perché segno di carattere distintivo dell’intera struttura. Anche se talvolta li si abbandona e li si dà troppo per scontati. Antonio Riello - Be Square! (But not too much). Modello femminileSpesso invece sono il primo luogo che visiti e sono una specie di primo test che fai per scoprire se un museo potrebbe piacerti. Io, per esempio, se il luogo non mi convince, cambio il mio approccio al posto. Ogni tanto mi è capitato di entrare in un bookshop, di rimanere deluso e di non essere passato oltre la biglietteria. Me ne sono tornato indietro. Dunque, gran parte dell’attenzione ormai si è spostata dalle sale agli spazi. Allora mi sono chiesto come trasformare il museo secondo un processo che io definisco di mixed reality, cercando cioè di integrare, di mischiare altri ambienti con gli spazi istituzionali del museo, come nell’installazione AirMart, realizzata nel 2005 per il Mart di Rovereto. Insomma, ci vuole un elemento che animi l’anima del museo, bisogna coinvolgere quelle persone che lo rendono un luogo tiepido, umano, e che sono importanti tanto quanto il museo stesso. Lo staff, intendo, il personale di servizio che diventa una sorta di supporto artistico di Be Square!.

Precisamente, cosa prevede il progetto?
Il progetto prevede la creazione di outfit di divise, alte uniformi di ordinanza. Be Square! è un’installazione, una performance long-lasting che può essere usata per un sacco di anni, attraverso un intervento puntuale e di natura adattabile; e con la possibilità di replicarla con una periodicità che coincida anche con i tempi del museo. In questo modo si entra nei meccanismi e negli andamenti più intrinseci all’azienda-museo, passando attraverso le giornate dell’opening per arrivare alla sua storia e a quello che rimarrà come una nicchia, come un pezzetto di storia, negli archivi del museo.

Cosa penseresti se una delle tue divise diventasse un’opera “fissa”? Magari perché catturata da una foto di Struth?
Beh, anche questo fa parte dei ritmi e dei vissuti di un museo. Vero è che Be Square! non è un semplice vestire le diverse gerarchie del museo, è anche un tocco di distinzione, un semplice passaggio in quel giochino di oggi che io chiamo spaccio di ruoli o di identità. Ogni uomo ha diverse identità, quella politica, quella religiosa, quella che usa in intimità e via dicendo. È diventata ormai necessaria una strategia interessante anche per l’apparire connotante del museo. È necessario trovare un segno che interagisca con le tradizioni e con i cicli di vita del museo stesso. Una sorta di elemento significativo di interruzione. E poi, in fondo, credo che mettere una cosa sbagliata in un posto sbagliato alla fine dia il risultato giusto. Le cose vanno spostate dal loro sito naturale e riproposte in un gioco di cambiamento, diventando un lavoro che va a creare un elemento di identità.

Ma perché lavorare proprio sulla divisa?
La divisa crea identità e omologazione. È la manifestazione visibile di questi giochi di ruoli, identità, autorità e adesioni che ci scambiamo ogni giorno e che indossiamo, sempre uno per volta. Il mio dev’essere un silenzioso, quasi passivo lavoro di riflessione sull’appiattimento democratico, che comprende anche l’indagine sulle singole identità, sulle differenze puntuali dello stile della divisa stessa, deputata a quei luoghi dove è più facile individuare delle gerarchie di potere. Antonio Riello - Be Square! (But not too much). BorsettaLa divisa, in un certo senso, livella perché crea senso di appartenenza; ma da un altro lato è quel dispositivo sul quale si leggono i dettagli distintivi dei ruoli, grazie a spallette, piastrine, medaglie e via dicendo, come succede fra i ranghi militari.

Perché hai scelto espressamente uno stile vintage per la tua divisa viennese?
Beh, ho la passione per la cultura britannica. Sono legato, idealmente, a quel perfetto gentleman di campagna anni ’30 che assomiglia, per intendersi, al Principe di Galles. Il mio immaginario riguardo a questo periodo fa riferimento a tutte quelle foto, ai film e alle tavole di moda che mi hanno ispirato e hanno dato le idee giuste non solo per tagliare i modelli, ma anche per costruire il tartan, il tessuto del quale sono fatte. C’è da dire che, nel mio vissuto, il tartan è sempre stato considerato -nell’Italia degli anni ’50, quando comparve per la prima volta- una sorta di tessuto che ispirava sicurezza. Avere un capo in tartan era considerato tanto un elemento di raffinatezza “esotica” quanto un tessuto per chi aveva raggiunto una pacata, appagante stabilità borghese. Nel ‘99 l’Unione Europea ha chiesto a un’azienda scozzese di realizzare uno european union tartan. Il progetto è servito per creare un tessuto che desse un’identità “vestibile” a fronte di una disomogeneità di culture e tradizioni presenti nei diversi neo-Stati europei. In fondo, la storia delle origini insegna che il tartan serviva per identificare clan e sotto-clan all’interno della realtà nazionale scozzese. Mentre il tartan europeo è fatto di quattro colori: il blu della bandiera, il giallo delle stelle rappresentanti gli Stati, il rosso che è il colore del legame e il bianco che è il fondamento della pace, della non belligeranza. A me l’idea di un tessuto continentale piaceva, Così come trovo piacevole contro-vertire e dis-organizzare questo che doveva essere un trait d’union continentale, e che io, con un mio gruppo di fashion designer, ho pensato di rielaborare creando piccoli errori nelle trame e negli orditi. Solo a qualche metro di distanza il tessuto rimane tale, mentre se avvicinandosi ci si rende conto di alcune linee interrotte, alcuni giochi geometrici non conclusi e diversi punti che non coincidono. In questo modo creo sorpresa nell’osservatore e determino in chi osserva il tanto atteso effetto spiazzamento.

Resta però la domanda: perché hai scelto gli anni ’30 per la Kunsthalle di Vienna?
A me piacciono le cose sbagliate nel posto sbagliato, per fare della somma di due elementi negativi un risultato positivo. Beh, per disegnare queste divise e tagliarle col tartan avrei dovuto fare molte ricerche per azzeccare il genius loci del museo in relazione al territorio, rischiando di addentrarmi troppo in dettagli che non avrei saputo re-interpretare. Così ho deciso di rimanere fuori dal tempo e dallo spazio, di collocarmi in un altrove. Avrei potuto, per esempio, anche disegnare delle salopette per il personale della Kunsthalle, creando un ennesimo spostamento, un effetto spiazzante che, magari, recupera la posizione iniziale di rottura. Comunque è importante sottolineare che le mie sono divise a tutti gli effetti e non vogliono fare la parodia di un costume da carnevale messo addosso a pubblici ufficiali. Io lavoro a un progetto serio con un’azienda, la Bonotto SpA, che realizza il tessuto, non a fantasia stampata; e poi ho un gruppo, Respow, che realizza e produce gli outfit. Sono due aziende che lavorano ad altissimi livelli di qualità, senza parlare poi dei miei amici fashion designer che studiano lo stile vintage di questi modelli da british country gentleman.
Antonio Riello - Be Square! (But not too much). Il cappello
A tuo parere, quali sono le intersezioni tra la moda e l’arte contemporanea?

La moda è il mondo dell’effimero, del veloce. La moda prende idee dagli artisti, li recluta, prende l’arte e la ri-utilizza. Oggi sempre più artisti si legano alle logiche veloci delle tendenze, quelle intrinseche al prodotto fashion. Prima era l’opposto. Gli stilisti si circondavano di grandi artisti ai quali facevano riferimento. In qualche modo, questo progetto rientra nelle logiche della moda, ma la ribalta, perché ne scardina i rituali e i sistemi di obsolescenza programmata dei quali essa stessa è schiava. Volevo che fosse l’artista a usare i dettami e gli stilemi della moda, legandosi però inevitabilmente ai cicli dell’arte e dell’istituzione votata all’arte per eccellenza, quell’istituzione che è, e rimane, il museo. L’arte non deve più essere il corollario della moda, bisogna sempre vedere di rimanere, beh, “fuori dalle righe”, anche se il mio tartan lo permette poco. Inoltre, questo tessuto è filato in una delle zone più care della produzione, il nord-est italiano. Con la Bonotto non solo mi sono garantito un prodotto di alta qualità, ma ho fatto agio di un campanilismo che evade dalle logiche del “made in Taiwan”, della cosiddetta lavorazione de-localizzata. Tutto doveva essere fatto per poter mettere un’etichetta ben precisa alle mie divise che, persino sui bottoni, portano la “A” e la “R”, le iniziali del mio nome. Questo è un progetto che faccio per il piacere di farlo: sia le aziende che mi hanno seguito, sia il gruppo di fashion designer hanno lavorato quasi gratuitamente. Siamo fuori dalla logica della vendita di un manufatto artistico.

Quali ruoli, quali cariche della “gerarchia museale” coinvolgerà il tuo tartan? Perché ci sono tempistiche e modalità di vestibilità diverse per l’intendente di sala, la commessa del bookshop o il management…
Abbiamo fatto mesi di misurazioni per cucire le divise. Sono fatte su misura per ognuno dei 52 membri dello staff della Kunsthalle. La mia divisa vestirà dal direttore, che magari indosserà il tartan solo nella giornata dell’opening, fino al guardiano, che invece con un taglio diverso, porterà il mio modello negli orari notturni di ronda. Ognuno ha una periodicità diversa, a seconda dei differenti turni di lavoro, e l’unico esterno alla gerarchia sarò io, vestito col mio tartan, ipnotico e sbagliato, solo nel giorno dell’inaugurazione. Per quanto riguarda i luoghi di servizio, come il bookshop o la caffetteria, siccome una divisa compresa di giacca sarebbe d’impaccio e d’intralcio per chi lavora dietro il bancone o fa lavori più “manuali”, abbiamo pensato alle cravatte per gli uomini e alle gonne per le signore. Antonio Riello - Be Square! (But not too much). Modello maschilePoi, per il “feticista da museo”, al bookshop saranno in vendita sciarpe e gadget rivestiti del mio tartan. Così, per chi vuole ci sarà anche la possibilità di portarsi a casa un pezzetto di mostra, un pezzetto di quel materiale che l’ha realizzata e celebrata: l’opera d’arte. Mi piaceva che non fosse più un tabù portarsi via qualcosa da un luogo museale. Amo sempre, in fondo, essere politically uncorrect. E in fondo è bello pensare che persino il bookshop diventi un luogo dove la mostra possa continuare e riprendere a essere, comunque, espressione artistica. Con quest’operazione credo che si possa vendere l’opera d’arte non come copia, ma come originale, attraverso il tessuto.

In futuro dove ti piacerebbe replicare il progetto? In Italia, per esempio, quale spazio pubblico sarebbe più adatto?
Mi piace molto il Macro di Roma, mentre al nord l’avevo pensata anche per un museo come Rivoli, ma forse è un museo troppo istituzionale, con un background e una storia fin troppo radicati sul territorio. Non è uno spazio a sé stante, concentrato solo sul contemporaneo. Rivoli mantiene sempre un’identità compatta, in osmosi con Torino e il Piemonte, è ben inserito e rappresentativo, tant’è vero che c’è sempre un richiamo per far capire dove ti trovi a livello di territorio. Comunque sia, il progetto funziona solo nelle grandi istituzioni che accolgono l’arte contemporanea. Non ho mai pensato che Be Square! potesse adattarsi anche agli spazi delle gallerie private. Vorrei che la mia installazione, il mio tessuto, beh, rimanesse intessuto assieme alla storia degli eventi, delle gerarchie e delle tempistiche di un’organizzazione con una vita fatta di lunghi cicli e di attività culturali di rilievo. E poi sarebbe troppo costosa come operazione. Se si studia un outfit è meglio farlo per uno staff che numericamente non sia inferiore alle venti persone.

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dal 10 novembre 2007
Antonio Riello – Be Square!
Kunsthalle
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