09 maggio 2001

Globalizzazione

 
Basualdo, Nilsonn, Oguibe, Irwin, Crandall, Cufer, Erjavec ed altri...

di

Aleš Erjavec
Dal romanticismo al post modernismo, l’arte è dominio del singolo europeo oppure dell’europocentrico, nonché della sua cultura e della sua lingua. Nel periodo modernista l’arte possiede un lato palese (modernista) ed uno nascosto: il primo costruisce sul nuovo e sull’urbano, universalizzando il mondo, che così ancora non è, mentre il secondo pone in rilievo il tradizionale ed il nazionale. L’arte postmoderna, specifica per le piccole culture europee (di diversità ce ne sono sempre di meno), fa la sua comparsa con la transavanguardia , per proseguire da un lato nel neoconcettualismo, e dell’altro nel sovranazionale.
La globalizzazione è un altro aspetto per definire l’egemonia multinazionale del capitale ed in particolare della cultura americana, che sta diventando l’attuale dominante della cultura globale. »L’identità« è qui individuale e di gruppo, mai nazionale; la specifica impostazione capitalistica (americana) »sovranazionalistica « de facto sta diventando universalmente globale..

Gli artisti appartenenti a culture minoritarie sono spesso costretti a fare del parassitismo creativo e promozionale su culture più grandi; i loro interventi creativi vengono successivamente piazzati nella propria cultura nazionale, nella loro totalità, invece – come nel passato – retroattivamente (e assimilato attraverso la lingua nazionale, i media , etc) influiscono sulla cultura nazionale. L’attuale conseguenza di questa assimilazione è il paradosso che oggi l’autentico modernismo universalizzante risulta come uno degli ultimi rifugi dell’arte nazionale.





Mika Hannula

“Per molte ragioni, tutte cristallizzate nelle conseguenze di una sempre maggiore globalizzazione dell’economia e della cultura popolare, si va affermando l’idea secondo cui le definizioni delle varie identità nazionali abbiano perso il loro potere argomentativo. Il mondo nel suo complesso è cambiato in maniera talmente vasta e drammatica che le differenze locali non hanno più, effettivamente, i contorni netti di un tempo. Dalle strade di Odense fino al paese di Babbo Natale nel nord della Finlandia la gente si veste allo stesso modo, ascolta la stessa musica e, in definitiva, è collegata ad un unico enorme bacino di simboli e riferimenti culturali.

Uno dei temi che hanno dominato gli anni Novanta, non per scelta ma per necessità, è stato l’incontro/scontro tra il livello cosiddetto globale e quello locale. I commentatori di tutte le aree della società hanno notato il divario crescente tra questi due livelli – un divario che per alcuni sarebbe già troppo grande, e alla base di una situazione irrisolvibile detta anche “la contraddizione del McWorld contrapposto alla Jihad.” Gli scettici sostengono che la pacifica convivenza di civiltà diverse (non culture diverse) è impossibile.

Ma chi è esattamente il nemico? … Un’alternativa esiste, e questa volta il livello locale e quello globale, invece di essere considerati la dimostrazione di un antagonismo senza fine, sono visti come elementi necessari alla cooperazione che potrebbe portare alla creazione di un nuovo livello, detto “glocal”. La natura artefatta di questo concetto lo rende ridicolo e risibile, ma l’idea che c’è dietro non è proprio nuovissima. Il suo obiettivo è una versione della località che sia presente e disponibile in termini globali. In altre parole, si tratta di un atteggiamento che si basa su di un approccio globale e, simultaneamente, su esperienza locali… Non è difficile adeguare questa idea ad una sfera più personale. Sostituendo il termine “locale” con “individuale” e “globale” con “società”, oppure parlando rispettivamente di “particolare” e “generale”, ci ritroviamo con un percorso di storia delle idee che ci riporta indietro fino ad un certo Hegel… Il punto di partenza per giungere all’interazione e all’interconnessione di locale e globale, dunque, è e deve essere un’esperienza individuale. Un’esperienza che non può avvenire in un luogo qualsiasi, ma è localizzata in una situazione che è legata ad un tempo e ad un luogo particolari. Un’esperienza che, per una ragione o per un’altra, si sia dimostrata importante per quel particolare individuo. Il passo successivo è la comunicazione, l’articolazione delle proprie esperienze in modo da renderle significative all’orecchio di coloro che saranno disposti ad ascoltare con attenzione e saranno capaci di farlo. L’esperienza individuale deve essere tradotta e presentata in modo da essere raggiungibile e leggibile, qualcosa cui sia possibile, dopo un certo e adeguato sforzo, relazionarsi.”


Citazioni tratte da: Mika Hannula, The Impossibility of Local Identity – Notes on the Necessity of a Situated Self, in: Norden/North – Contemporary Art from Northern Europe, Kunsthalle 20.




Intervista di Aurora Fonda con Carlos Basualdo

?. Cosa pensa dell’influenza del fenomeno della globalizzazione sulla scena artistica? Vi è un arricchimento complessivo o al contrario hai l’impressione che qualcosa vada perso, per esempio le nozioni di identità nazionale e la tradizione?

A volte sentendo parlare di globalizzazione ho l’impressione di trovarmi di fronte a un grande termine-ombrello che copre una serie di fenomeni molto diversi fra loro. Infatti, esiste una cultura dell’accumulazione, ma ce ne è anche una della comunicazione, e questa, a mio parere, è la strategia fondamentale del capitalismo. Il capitalismo è una macchina che ‘accumula’ ed al contempo una macchina che crea nuove relazioni, che sono necessarie per accumulare sempre più profitti. In un secondo momento, questa macchina porta con sé sviluppo e tecnologia. Ed è sempre questa macchina, il diagramma, di cui ci parlava Deleuze, dove i frutti della tecnologia si sommano al capitalismo, e producono un ulteriore fenomeno, la trasmissione della cultura: la possibilità che persone diverse in luoghi diversi riescano a comunicare. A mio parere, con il termine globalizzazione ci riferiamo a tutti questi elementi indifferentemente, benché si sia coscienti delle sfumature. Globalizzazione è dunque un termine molto ampio, che racchiude in sé vari fenomeni che agiscono su diversi livelli della vita culturale e quotidiana. È un termine decisamente problematico, per cui è meglio concentrarsi su alcune delle sue particolarità piuttosto che sforzarsi di parlarne in termini generali.

?E la questione dell’identità?

Si tratta di stabilire un terreno comune in cui differenti culture e differenti produzioni culturali di tutto il mondo possano comunicare, ma allo stesso tempo conservare un certo grado di efficacia nel luogo originario dove tali pratiche sono state sviluppate o messe in atto, nel contesto dove sono state prodotte. Così, allo stesso tempo, penso che il tentativo della modernità fosse proprio quello di mettere a punto una prassi capace di inserirsi in un dialogo internazionale, pur rimanendo efficace a livello locale. Il modernismo, secondo me, non ha mai contrapposto il locale all’internazionale, ma ha piuttosto tentato di operare su entrambi i livelli contemporaneamente, come risulta evidente se pensiamo a scrittori come Joyce o Borges. Autori come questi non pensavano in termini di aut-aut, ma ammettevano entrambe le possibilità. E, a mio parere, gli artisti più interessanti oggi lavorano in questa direzione, operando cioè all’interno del contesto in cui si trovano. Partendo dal contesto in cui vivono, cercano di agire in modo che le loro opere possano esistere al di là di questo. Anzi, potrei dire che questi artisti riescono a superare i confini del loro contesto proprio in virtù dell’efficacia con cui vi lavorano dentro. In questo senso, non mi sembra di vedere alcuna opposizione nel lavoro degli artisti più interessanti. D’altro canto, mi sembra molto pericolosa l’idea di identità collegata a quella di nazionalità. É sempre stata un’associazione pericolosa. L’identità nazionale è un concetto piuttosto rischioso. Credo che l’attuale dibattito sull’identità sia pericoloso perché contaminato da due secoli di polemiche. Esiste un modo fondamentalmente belligerante di riflettere sull’identità, e io credo che per eliminare tale belligeranza sarà necessario trovare, nella comunicazione globale, una nuova definizione d’identità. Mi auguro che succeda.

?. Una delle caratteristiche del sistema globale delle comunicazioni è la possibilità di ottenere e diffondere informazioni pur vivendo in un paesino sperduto, l’unica cosa importante è avere un computer. Questo stato di cose sta facendo emergere un incredibile varietà di differenti visioni del mondo. Secondo te, avranno una qualche influenza sulla ‘stabilità’ della cosiddetta scena artistica tradizionale? In che modo?

Io penso che quello che chiamiamo storia dell’arte moderna e contemporanea, riguardi fondamentalmente ciò che è successo nell’America del Nord e nell’Europa occidentale. É stato il modo di raccontare la storia dopo il ’45 e ora sta cambiando perché ci si sta rendendo conto che negli anni ’60 vi erano centri di grande rilievo come il Giappone, Buenos Aires in Argentina o i paesi della ex-Yugoslavia e la Russia. Così, negli ultimi dieci anni stiamo assistendo a un processo di continua rimappatura del mondo. E sono d’accordo con te che molti sentono la minaccia di nuove forme d’autorità o di investimento del capitale. Quando parlo di investimento del capitale, io vorrei che si intendesse l’autorità stessa come un modo di investimento, ne esistono altri: emotivo, intellettuale, finanziario. Una rimappatura del mondo che riguarda in definitiva tutti questi modi. Le persone reagiscono a volte con curiosità, a volte con angoscia, altre con aggressività. Questo è naturale. É nella natura umana. Penso che questo processo non si fermerà e che sia una specie di progetto a lungo termine ricco di implicazioni culturali. Ed è qualcosa che non sarà ben accolto e compreso dalle istituzioni egemoni. Ma si sa che avverrà e che dovremo affrontarlo.

?. Riuscire a emergere ed essere invitati a una esposizione internazionale non significa che il mercato dell’arte si interesserà all’opera di un’artista proveniente dalla cosiddetta periferia. A questo proposito, l’anno scorso tu ha organizzato a Lubiana una mostra interessante, intitolata “Worthless” (senza valore). Sentiamo spesso parlare di mercato globale, ma ho la sensazione che questo termine non sia applicabile all’arte. Perché?

Secondo me il mercato globale è una specie di slogan, non una realtà effettiva. Per questo dicevo che il concetto di ‘globale’ è a volte vastissimo, ma inevitabilmente contraddittorio. Talvolta il termine globalizzazione viene inteso e associato all’idea del libero scambio, ma il libero scambio è difeso da poteri egemoni, il che vuol dire che solo alcuni possono fare quello che vogliono conservando determinate norme restrittive. In altre parole, la Francia e gli Stati Uniti possono fare ciò che vogliono e allo stesso tempo possono anche mantenere certe restrizioni, come ad esempio quelle riguardanti gli scambi agricoli in Europa. Sappiamo che oggi tutto sembra poter viaggiare nel mondo come una merce, tranne il lavoro. L’intero dibattito sull’immigrazione e la clandestinità nasce precisamente da questa contraddizione. Le dinamiche di mercato sono molto precise e in gran parte dettate dalle grandi potenze nazionali e dalle istituzioni egemoniche e, naturalmente, queste stesse dinamiche si riflettono nel mondo della cultura, in cui la possibilità di accedere alle mostre internazionali non significa che i collezionisti d’arte siano aggiornati col mercato globale. Non si vuol dire che proprio oggi il nostro lavoro, per essere culturalmente efficace, dipenda interamente dal mercato. Sembra piuttosto che perché un lavoro sia culturalmente efficace, prima debba essere diffuso e in qualche modo filtrato dal mercato. Non penso però a una relazione causale fra la penetrazione del mercato e l’efficacia culturale. Si deve fare, credo, una chiara distinzione.

? C’è una specie di barriera nei confronti degli artisti provenienti dalle nazioni non egemoni. Una distanza e una effimera curiosità, ma nulla più?

Capisco che la penetrazione del mercato è importante per la vita delle persone. La cosiddetta penetrazione del mercato culturale significa anche investimenti nelle opere e, in ultima istanza, gli investimenti finanziari nelle opere sembrano garantire la costruzione di una memoria storica delle opere stesse. Ma quel che più conta è che dall’altra parte alcune delle più interessanti esperienze fatte negli ultimi anni sono sopravvissute alla penetrazione del mercato. Così, io non sono pronto ad abbracciare l’idea che bisogna combattere la penetrazione del mercato. Non seguo questa tendenza. Sono interessato specificamente all’impatto che questo isolamento dai circuiti finanziari può avere per la vita delle persone, ma non sono interessato invece agli effetti concreti. Penso che la penetrazione del mercato avvenga in certi determinati livelli. Sono d’accordo con te, le persone che hanno investito, diciamo, nell’arte tedesca del dopo-guerra o nel Minimalismo americano potranno avere difficoltà a comprare opere costruttiviste, generalmente poco considerate. Questo perché da una parte c’è tutto l’interesse a promuovere le opere su cui si è investito, dall’altra perché ci sono ancora molti pregiudizi. Io penso che ci siano differenti realtà. E penso che queste stiano operando e continueranno a operare a differenti livelli. Penso che tradizionalmente nel mondo moderno l’efficacia culturale di un lavoro artistico abbia avuto bisogno tanto di noi quanto dei collezionisti e abbia avuto bisogno allo stesso tempo che i collezionisti rappresentassero i valori borghesi. Ma non credo che questa sia la situazione attuale. Con ciò non voglio dire che adesso sia meglio, anzi mi sembra che la cultura borghese sia stata sostituita da una cultura d’impresa, e questa non mi sembra un avanzamento rispetto alla prima. In ogni caso, queste due culture sono completamente diverse fra loro e sono certo che le imprese hanno operato a livello culturale con scopi diversi, mirando non tanto al collezionismo, quanto ad auto promuoversi attraverso la cultura stabilendo un dialogo completamente differente con ciascun artista. Fondamentalmente dovremmo provare a guardare a ciò che sta accadendo e a tirar fuori delle categorie da quello che sta accadendo, dimenticandoci un po’ del passato. Dal white cube ai collezionisti privati e da questi ai musei, le relazioni stanno cambiando. La cultura d’impresa, le biennali, i contatti fra le città che agiscono come imprese alla biennale, stanno davvero stravolgendo l’intero circuito. Stravolgendo quello che è adesso il white cube. Non dico che stia cambiando in meglio, ma sta cambiando.

? D’altro canto, la tendenza del mercato (la creazione di immense quantità di prodotti commerciali) provoca negli artisti una reazione sempre più forte e finisce per attribuire più importanza al processo che all’oggetto.

É ciò che è successo negli ultimi trent’anni e in realtà penso che questo abbia dato nuova vita al modo in cui gli artisti sono stati coinvolti nel processo artistico. Pensiamo agli anni ’60 e ’70, allora era molto più chiaro l’interesse degli artisti nei confronti del consumismo rispetto agli anni ’80 e ’90. Penso che sebbene ci siano molti artisti che lavorano in termini di processo, un numero maggiore lavora in termine di oggetto, penso che ciò sta rendendo tutto molto banale e che si debba tornare un po’ più indietro nel passato.

?. Non pensi che un’azione maggiormente ironica e dissacrante nei confronti del sistema dei mezzi di comunicazione è oggi una forma d’arte interessante e efficace, sebbene risulterebbe una forma d’arte impossibile da comprare o da vendere.

Anche questo fa parte, come ho detto, di una tradizione attiva da molto tempo. Penso che faccia ormai parte della storia dell’arte. É certamente interessante, ma è ancor più interessante che non ci sia una gran differenza fra ciò che sta accadendo oggi e ciò che accadeva trent’anni fa. Dobbiamo ricordare che trent’anni fa c’era il ’68 in tutto il mondo e gli artisti reagivano a quel momento in modo molto creativo. Secondo me, la principale differenza è proprio nel modo in cui rispondono oggi i curatori e le istituzioni. Il problema è se questi ultimi riescono a rendere note le esperienze degli artisti, a metterle in relazione, a interpretarle come un modo differente di comprendere l’arte o se sono capaci soltanto di trasformarle in merce e renderle parte di un sistema vecchio come quello precedente. Credo sia un punto cruciale. Penso che gli artisti stiano provando a rompere il sistema di capitalizzazione degli ultimi trent’anni. Sono convinto che il modo in cui le persone nei diversi campi culturali possono operare con il proprio lavoro è cambiato. É questa è un’ottima possibilità per sviluppare un nuovo progetto.

? Facciamolo allora…

Certo, ma collaborando. Si sa, in passato gli artisti avevano delle istituzioni da combattere. Oggi questo è cambiato un po’ e c’è la possibilità che le istituzioni possano reinventare se stesse in modo da lavorare insieme agli artisti, non contro di questi. É ciò che spero.








DOMANDE PER IL PROGETTO “ABSOLUTE ONE”
John Peter Nilsson
Domande: Nataša Petrešin


.P.: A quanto pare l’imperialismo del mondo artistico europeo e nordamericano è riuscito a inventare nuove tendenze e gusti momentanei per il pubblico e il mercato dell’arte. Considerato l’attuale spostamento degli interessi dal centro verso i margini, sia da un punto di vista topografico, sia sociologico, possiamo dire che la situazione odierna è costituita esclusivamente da tendenze, oppure esistono le condizioni perché questi si prolunghino in qualcosa di molto più decisivo?

J-P.N.: Oggi il soggetto è costretto a tracciare da sé la propria posizione sulla mappa. Dobbiamo capire che siamo sempre globali – in un luogo o nell’altro. La geografia è inservibile e dobbiamo cominciare a orizzontarci sulla base delle nostre esperienze. In un simile viaggio la domanda da farsi non è più “Chi sono” ma “Quando sono?” In un mondo globalizzato è necessario orientarsi usando un linguaggio globale, altrimenti ci si perde. Ma le nostre esperienze non sono esclusivamente globali e collettive, appartenenti ad un mondo che condividiamo con moltissime altre persone: sono anche le nostre avventure private, radicate in un contesto personale. È necessario, quindi, ripensare cosa può essere un’esperienza in relazione al linguaggio, riflettendo soprattutto sul fatto che il linguaggio non è avulso né dal nostro corpo né dal luogo in cui agiamo. Il linguaggio è un flusso costante, che interagisce con tutti i contesti e le situazione in cui ci troviamo.

La frizione perenne tra esperienza e linguaggio genera distanze intraducibili. E poiché il Sé può raggiungere solo una parziale comprensione di se stesso, avendo bisogno dell’Altro per colmare la lacune, un dialogo tra esperienza e linguaggio non può avvenire con la sola comprensione reciproca. Se desidero tracciare la mia rotta, se voglio individuare la mia posizione nella geografia inservibile, devo raccontare una storia – la mia storia. Se questa storia è vera, essa non appartiene a nessun altro che a me. Naturalmente, da questo deriva una certa incomprensione: una comprensibile distanza tra me stesso e gli altri. Ciò che c’è di nuovo, nel nuovo oggi, è la lotta per conquistare uno spazio nel mondo in cui raccontare questa storia. Non è il cyberspazio. E non è l’etnospazio. È uno spazio mentale, dentro me stesso, dentro i miei simili.

N.P.: L’analogia tra il Grande Fratello Orwelliano e i processi della global economy o i meccanismi subliminali di Internet sembra pertinente: in entrambi i casi si può parlare di controllo e di perdita di identità. Quali strategie di opposizione a questa tendenza sapresti individuare nell’arte in generale, e nell’arte nordica in particolare?

J-P.N.: È stato detto che un radioso futuro attende l’arte e la produzione culturale in generale. In altre parole, l’effetto-novità di televisione e Internet prima o poi svaniranno. Alcuni sostengono che ciò accadrà tra non molto, e che nascerà un nuovo pubblico, affamato di arte e desideroso di sperimentare l’arte nella “vita vera”. Musei e gallerie devono cominciare a stare in guardia.

D’altro canto, nel nostro odierno villaggio globale la differenza tra centro e periferia è decisamente implosa. La tecnologia ha reso molti di noi parte di una società internazionale dove le vecchie frontiere nazionali sembrano non avere più importanza. Informazione e divertimento, merci e ideologie si diffondono in tutto il mondo a prescindere dal patrimonio nazionale o culturale. Oggi la linea che separa gli appartenenti alla nuova società da coloro che invece ne rimangono esclusi è l’accesso alla tecnologia (e all’informazione).

Nei paesi nordici c’è la più alta densità mondiale di telefoni cellulari. La spiegazione di questo primato non è solo di carattere economico. C’è chi sostiene che il fattore fondamentale è una combinazione di geografia locale e numero di abitanti – le comunità sono distanti tra loro, e questo aumenta la distanza anche tra i singoli individui. Ci si telefona o ci si spedisce e-mail con la stessa frequenza con cui ci si incontrerebbe al bar o a casa di amici.

La diffusione dell’informatica ha alterato drasticamente il nostro modo di vedere il mondo (e noi stessi), e questo vale per i paesi nordici quanto per il resto del mondo (almeno per i paesi ricchi). Viviamo in un villaggio globale in cui il mondo si è paradossalmente ristretto ed espanso! Si è sviluppata una nuova specie di vicinanza (e di curiosità) rispetto a regioni un tempo considerate remote e a culture marginali, per esempio la zone dell’estremo Nord. Non è più tanto ovvio quale sia il centro e quale la periferia.

Non ci sono risposte semplici alla tua domanda. Da un lato la tecnologia mediatica di oggi ha cambiato il mondo in meglio, ci “avviciniamo” gli uni agli altri, ci “avviciniamo” agli avvenimenti politici e siamo molto più consapevoli delle ingiustizie democratiche e delle questioni ambientali. Allo stesso tempo, però, questo “super-illuminismo” ha provocato effetti tragici. Per esempio, in El cansancio de Occidente [La stanchezza dell’occidente] (1992) Rafael Argullol e Eugenio Trías scrivono: “La passività è la caratteristica distintiva degli esseri umani di oggi. Ed è evidente: trasformando le persone in spettatori, derubandole di qualsiasi possibilità di influire, si producono esseri passivi. Ma tutto questo, naturalmente, avviene sotto la parvenza del suo opposto. Tutti gli pseudo-avvenimenti sono immersi in un flusso ininterrotto di attivismo, un attivismo che rafforza la passività, un movimento senza posa che si confonde con l’immobilità. Non facciamo che parlare dello stress e dell’iperattività che caratterizzano la società, eppure l’impressione finale è quella di una ricerca della vacuità.”

La società osservata da Argullol e Trías non è solo infarcita di cliché, è anche molto triste. Nel diario di Andy Warhol, alla data 27 giugno 1983 troviamo questa società descritta così: “…dopo anni di notiziari sempre più affollati di “persone”, non sappiamo ancora niente di più sulla gente. Forse sappiamo di più, ma non la conosciamo meglio. Magari vivi con qualcuno e non hai idea di come sia nemmeno quella persona. Quindi che beneficio ci portano tutte queste informazioni?”

N.P.: La teorica e artista slovena Marina Grznic ha messo a punto una teoria che prevede due diverse matrici ideologiche per discutere i rapporti tra Europa orientale e occidentale: la prima corrisponde alla “matrice mostro”, la seconda alla “matrice feccia della società”. Grzinic è convinta che il processo di globalizzazione non farà che consolidarle. Tu come percepisci, da un punto di vista scandinavo, questa divisione tra oriente e occidente europeo?

J-P.N.: Quando ci si concentra su una particolare regione o area del mondo si corre sempre il rischio di creare dei ghetti. La mostra “After the Wall” [dopo il muro], organizzata al Moderna Museet di Stoccolma nell’ottobre 1999, fu inaugurata da un seminario di due giorni, al quale numerosi intellettuali furono invitati a discutere la situazione dei paesi post-comunisti. Fu un’occasione per riflettere sull’“est”. Durante il dominio comunista gli abitanti dei diversi paesi comunisti sapevano gli uni degli altri quanto noi in occidente sapevamo di loro, cioè poco. Eppure tutte quelle persone erano unite dal fatto di vivere in un regime totalitario!? Visitando la mostra mi chiesi se quel tratto comune fosse visibile, se c’era qualcosa ad unire la cosiddetta arte post-comunista. La ritrovata libertà di quell’arte, per esempio, aveva fatto diminuire la fiducia in se stessi e la necessità di imitare l’arte occidentale oppure, viceversa, l’arte dell’est europeo si era trincerata nel passato?

Beh, dopo aver visto “After the Wall” e aver viaggiato e lavorato a lungo con “l’est”, mi permetto di dire che le differenza tra est e ovest dell’Europa effettivamente esistono. Una di queste differenze è nello stile di scrittura: gli scrittori “dell’est” complicano i livelli del testo aggiungendo significato su significato, mentre uno scrittore “occidentale” agisce per sottrazione di significati… Okay, è un’affermazione lievemente ironica, ma la differenza principale tra est e ovest europeo è che l’occidente sembra spesso viziato e blasé, perennemente alla ricerca di un significato senza mai scoprire cosa sta cercando. Nell’est almeno si cerca con determinazione di scoprire qualcosa, e di esserne orgogliosi, di lottarle per ottenerlo – a volte fino al limite del cinismo.

N.P.: Potremmo dire che stereotipi un tempo detestati cominciano ad essere accettati, in quanto rappresentanti delle realtà locali, le quali potrebbero essere trasformate in ciò che è suggerito dal termine “glocality”?

J-P.N.: Oggi si ascolta musica pop svedese in tutto il mondo. Band straniere vengono a Stoccolma a registrare i loro dischi, i dirigenti delle società discografiche internazionali vanno a caccia di nuovi talenti nelle località più strane del paese. Il sound svedese è diventato un fenomeno.

Ma il sound svedese è svedese? Non proprio. Non è possibile rintracciarvi alcun suono caratteristico o tipico. Sono sicuro che la maggior parte dei giovani che comprano o ascoltano pop svedese non sanno nemmeno di ascoltare musica di quel paese. A volte l’inglese è cantato con un lieve accento svedese, ma il sound è internazionale, la commercializzazione è internazionale, e i profitti finiscono in svariati conti bancari internazionali.

Allora perché parlare di musica svedese? Forse assistiamo a un fenomeno basato sulla nostalgia delle differenza culturali? D’altro canto, il livellamento delle differenze nazionali ha prodotto un atteggiamento in un certo senso blasé e quasi cinico nei confronti della cultura contemporanea, portandosi appresso anche il livellamento di valori e significati. Abbiamo assistito a diverse reazioni a questa evoluzione – dalla nascita di movimenti neo nazionalisti a un rinnovato interesse per il nichilismo filosofico.

Allo stesso tempo, assistiamo a un nuovo interesse per l’espressione delle culture nazionali, specialmente nelle arti visive. A parte le varie biennali, triennali e documenta (a lungo le olimpiadi del mondo artistico), il boom dei musei in occidente ha portato alla celebrazione dell’arte tedesca, inglese, italiana, spagnola, statunitense, giapponese eccetera in numerosissime mostre nazionali. Questa tendenza ha avuto il grosso appoggio dei vari governi nazionali, spesso in collaborazione con aziende multinazionali di vari paesi, interessate ad ampliare i propri mercati grazie a un po’ di patina artistica.

È uno strano paradosso, almeno quanto lo è il successo internazionale della musica pop svedese. Da un lato viviamo in un villaggio globale in cui i vecchi confini nazionali sembrano non avere più l’importanza di un tempo, dall’altro le manifestazioni di cultura nazionale non sono mai state tanto evidenti. Oltretutto, proprio come accade alle merci delle multinazionali, gli influssi e la produzione degli artisti sono sempre più rivolte a un mercato internazionale. A volte i cosiddetti artisti nazionali non risiedono nemmeno nel paese che dovrebbero rappresentare, in altri casi vi hanno trascorso solo per brevi periodi.

Oggi l’intera questione della cultura nazionale e internazionale ci disorienta non poco. Non sono sicuro che la forza propulsiva di manifestazioni nazionali tanto diverse sia esclusivamente la nostalgia per le cose passate, o per un perduto ordine mondiale. È anche una questione di identità. Di creazione di identità. Di un’identità nuova.

N.P.: Fin dall’inizio del secolo scorso l’arte ha rappresentato uno spazio aperto, privo di aura. Possiamo ancora dire, in una situazione minacciosa come quella di cui stiamo parlando, che essa abbia il potere di trasformare le vite (o le opinioni), oppure questa esperienza è relegata ad un livello individuale ed estremamente soggettivo?

In L’autore e l’eroe (1920-23 ca.) Michail Bachtin scrive: “Comprendere questo mondo come mondo degli altri, che in esso hanno compiuto la loro vita – il mondo di Cristo, di Socrate, di Napoleone, di Puškin, ecc. -, è la prima condizione di un approccio estetico ad esso. Bisogna sentirsi a casa nel mondo degli altri per passare dalla confessione alla contemplazione estetica oggettiva, dalle domande sul senso e dalle ricerche del senso alla bella datità del mondo.”

Questa affermazione è interpretabile come un’interpretazione generale e visionaria del villaggio globale odierno. Ma quando Bachtin dichiara che “bisogna sentirsi a casa nel mondo degli altri per passare dalla confessione alla contemplazione estetica oggettiva, dalle domande sul senso e dalle ricerche del senso alla bella datità del mondo” è possibile vedere nelle sue parole una visione capace di abbracciare l’Altro senza pregiudizi né preconcetti, in un senso più psicologico e relazionale. Di abbracciare la naïveté che è in ciascuno di noi. Di trovare il bambino o la bambina che sembra scomparire dentro di noi man mano che cresciamo.

Bachtin considerava il riso un fattore importante di questo processo. Secondo Freud, l’umorismo era una forma di disobbedienza, il rifiuto di cedere ai pregiudizi sociali. Per i surrealisti (tra gli altri) l’umorismo divenne una danza del diavolo che li conduceva negli abissi dell’inconscio.

In Le surréalisme (1950), Yves Duplessis scrive : “L’umorismo non è solo il marchio di uno spirito che non si lascia sommergere dagli avvenimenti, ma ha un suo lato grandioso, poiché esprime la volontà che il sé ha di affrancarsi dalla realtà, al punto di divenire insensibile ai suoi attacchi. I colpi inferti dal mondo esterno possono persino provocare piacere. Freud, riporta André Breton, cita il caso di un condannato che, condotto in carcere un lunedì, esclamò: “Comincia bene, la settimana!” Grazie al suo potere di salvarci dalle “prove imposte dal dolore”, lo humour assume un “valore più alto” e noi “lo vediamo come particolarmente adatto a liberaci ed elevarci.”

L’interpretazione dello humour fornita da Breton (qualcosa di “adatto a liberaci ed elevarci”) fu un elemento importante all’interno della visione surrealista del potenziale utopico dell’arte nella creazione di un mondo migliore e più bello. I surrealisti adottarono una visione programmatica della capacità che l’arte ha di cambiare il mondo, rendendo visibile la “vera” realtà dell’inconscio: una verità assoluta, al di là della facciata falsa della ragione borghese. Cosa succede se sostituiamo la parola humour con amore? L’amore può essere usato come mezzo per liberarci ed elevarci?

Naturalmente “all you need is love”… A partire dal Romanticismo, questa è stata la risposta ad ogni genere di problemi. Quando gli altri modi di incontrare o abbracciare il prossimo falliscono, l’amore si presenta come la soluzione. L’amore è stato usato (e abusato) soprattutto nella cultura popolare – oggi non basta più dire “ti amo”, bisogna dire “ti amo come Ingrid Bergman amava Humphrey Bogart in Casablanca e così via, per parafrasare la celebre osservazione di Umberto Eco sulla crisi della rappresentazione nella società. Pochi sembrano credere ancora nell’amore incondizionato, eppure l’amore sembra sempre condizionale.

Tornando ai surrealisti, André Breton scrisse nel Secondo Manifesto del Surrealismo del 1929: “Tutto porta a credere che esista un punto dello spirito da cui la vita e la morte, il reale e l’immaginario, il passato e il futuro, il comunicabile e l’incomunicabile, l’alto e il basso cessino di essere percepiti come contraddittori. Ora, sarebbe vano cercare, alla base dell’attività surrealista, altro movente che non sia la speranza di determinare questo punto.”

Non è forse l’amore il punto nell’esperienza dove gli opposti si riuniscono? Non ultimo è il caso dell’opposizione di paura e desiderio, per esempio. Questo paradosso ci conduce al Barocco – possiamo osservare l’amore in un Barocco in cui “la piega” ha svolto un ruolo percettivo fondamentale? Gilles Deleuze affronta questo tema nel suo La piega. Leibniz e il Barocco, del 1988. “La piega: il Barocco inventa l’opera o l’operazione infinite. Il problema non è come finire una piega, ma come continuarla, farle attraversare il soffitto, portarla all’infinito. Il fatto è che la piega non simula soltanto tutte le materie, che diventano anche materie d’espressione, seguendo scale, velocità e vettori differenti (le montagne, le acque, le carte, le stoffe, i tessuti viventi, il cervello), ma determina e fa apparire la forma, ne fa una forma d’espressione, Gestaltung, l’elemento genetico o la linea infinita d’inflessione, la curva a variabile unica.”

Naturalmente era Dio, che avrebbe dovuto rivelarsi nei contorni vertiginosi delle forme, secondo le intenzioni del Barocco. Ma può essere anche l’amore, non vi pare? La piega barocca può sprigionare una sensibilità estrema nel voler trarre il massimo da ogni singolo istante, nella capacità di coordinarsi con le varie forze che sono esterne alla sfera del nostro controllo personale. Nell’essere attenti all’Altro, nell’osare seguirlo governando i movimenti del nostro corpo secondo i suoi termini, e vice versa.

Possiamo entrare in una stanza, in una situazione, che definiscono la nostra presenza. Uno spazio che cambia secondo i nostri movimenti al suo interno. Una situazione che non fa che avvenire – che, semplicemente, è.






Intervista di Aurora Fonda a Olu Oguibe
20-21 marzo 2001


1. Ho letto di lei ovunque, su Internet – interviste, saggi e articoli – ed è strano: pur essendo d’accordo con lei su molti punti, per esempio il fatto che la rivoluzione digitale sia un fenomeno d’élite (per lo più circoscritto a persone ricche e istruite) e non coinvolga la maggioranza della popolazione mondiale, rimango convinta che sia un fenomeno grandioso. Senza, sarebbe stato un lavoro lungo e difficile entrare in possesso di tutte queste informazioni su di lei!!!!?????

Non sono sicuro di aver capito bene la domanda, ma se sta insinuando che Olu Oguibe è contrario alla rivoluzione digitale, niente potrebbe essere più lontano dal vero. Dubito di aver mai rilasciato dichiarazioni sulle nuove tecnologie informatiche senza soffermarmi sulla loro utilità, se non addirittura sul loro essere indispensabili per alcune società in questa fase storica. Nel mio primo testo sull’argomento, pubblicato quasi sei anni fa, mi esprimevo così a questo proposito:

…quel che è certo, una tecnologia versatile e sempre più dispotica come è quella delle cybercomunicazioni racchiude in sé indubbie possibilità e conseguenze, non solo per la minoranza che oggi vi accede e la controlla, ma anche per molti altri…
[Oguibe, Forsaken Geographies: Cyberspace and the New World “Other” (Geografie abbandonate: il cyberspazio e il nuovo ”altro” mondiale), 1996]

Il testo prosegue: “Se è vero che un paese devastato dalla guerra può avere più pressante bisogno di ripristinare il proprio sistema di telecomunicazioni piuttosto che di attivare immediatamente la connettività alla rete, sarebbe sbagliato precludere questa seconda possibilità, o non riconoscerne l’assoluta attrattiva”, concludendo che “forse dovremmo definire i vantaggi concreti e reali della cybertecnologia, riconoscere l’attuale inaccessibilità di questa tecnologia e, infine, tracciare una strategia che metta tali vantaggi a disposizione di quante più persone possibile.” Non credo si potesse dire in maniera più chiara.

In Connectivity, and The Fate of the Unconnected (“La connettività e il destino dei non connessi”), scritto a Bellagio, in Italia, nel 1999, mi spingo persino oltre, affermando:

Come medium [la rete] può essere manipolata per dare vita a una categoria completamente nuova di prodotti e situazioni culturali, e funzionare da veicolo per il trasferimento, la distribuzione e la valutazione critica di tali forme e contesti culturali. In terzo luogo, la rete rende possibile la comunicazione e la collaborazione tra gli artisti, oltre che tra artisti e altri produttori di contenuti, esterni all’arena culturale. Essa serve inoltre come mezzo di informazione e scambio di merci, in altre parole come elemento sempre più importante del commercio globale di culture.

Sono una presenza molto significativa su Internet dal 1995, quando vinsi un premio di Netscape come web designer, ancora prima di cominciare a scrivere di nuove tecnologie informatiche. Controllo automaticamente la mia posta elettronica ogni trenta minuti, ventiquattro ore al giorno. Dal 1990 ho posseduto sei laptop, oltre a numerosi personal computer, scacchiere computerizzate, PDA e strumenti di imaging. Passo almeno quattro ore al giorno collegato in rete. È chiaro che non sarebbe esatto definire Olu Oguibe un “cyberofobo”, o affermare che la mia critica della rivoluzione cyber si riduce ad un rifiuto. Al contrario: credo di aver sempre sostenuto che non dobbiamo dimenticare chi è rimasto tagliato fuori da questa rivoluzione e sta forse, anzi mi pare abbastanza chiaro, pagando un prezzo ingiustificato per la propria condizione.

2. Il fenomeno della globalizzazione si sta allargando rapidamente a tutto il mondo. Anni fa conoscevamo pochissimi artisti asiatici o africani, oggi sappiamo sempre più cose di loro e cominciamo ad apprezzarli. Non crede che questo possa essere annoverato tra i risultati dello scambio globale delle informazioni?

“Globalizzazione” non è altro che un bel nome nuovo per un fenomeno molto vecchio. Con l’imperialismo, l’economia globale dell’impero era unita, e ciascun potenza coloniale interfacciava la propria economia con l’economia delle altre potenze simili, creando una complicatissima economia coloniale globalizzata. Si esportavano prodotti frivoli e tecnologie sfruttatrici alle periferie dell’impero, mentre beni e servizi coloniali affluivano in maniera centrifuga verso il centro. La ricchezza prodotta dalle colonie sosteneva l’avanzamento industriale e culturale europeo. Walter Rodney in How Europe Underdeveloped Africa, e Edward Said in Imperialism (“Imperialismo”, sic) hanno delineato con grande chiarezza la configurazione globale dell’economia imperialistica.

Quindi, più si riflette sui discorsi odierni sulla globalizzazione, più si conclude che essi non sono altro che un esercizio concettoso, basato su di un’ossessione per il presente che è amnesica e di convenienza. Non ci troviamo di fronte ad un nuovo fenomeno chiamato globalizzazione, ma al trionfo di vecchi rapporti di potere globali: la fine della storia di Francis Fukuyama, unita all’illusione della nuova metropoli porosa. Con il senno di poi, ci rendiamo conto che Kwame Nkrumah non si sbagliava affatto descrivendo l’imperialismo come l’ultimo stadio del capitalismo, anche se presagiva esattamente l’opposto di questo suo trionfo finale.

Oggi l’occidente non conosce più artisti africani di quanti ne conosceva nel 1945. Gli artisti africani visibili in occidenti si possono ancora contare sulle dita di una mano, e nemmeno le condizioni della loro visibilità sono molto cambiate. La maggior parte di questi artisti che vivono e lavorano in occidente si vedono ancora sbattere la porta in faccia. Qualcuno potrebbe pensare che l’importanza di artisti quali Ofili e Shonibare sia indice di un rivoluzionario spirito di apertura, ma ricordate che, prima di tutto, se non fosse per il colore della pelle questi due artisti non sarebbero considerati come outsider di successo, per il semplice fatto che non sono outsider, essendo di nazionalità britannica e nati in Inghilterra. Ricordate che le difficili condizioni che hanno accompagnato la notorietà di William Kentridge in occidente pongono questo artista in una situazione simile a quella della scrittrice Doris Lessing – in altre parole, nell’accoglienza di William in occidente la sua razza conta quanto la qualità del suo lavoro, ed è un peccato. Ricordate che moltissimi artisti occidentali legati in modo anche remoto all’Africa rimangono fuori del gioco in Europa. Mi pare difficile vedere in che modo la globalizzazione ha cambiato le cose, quando non è cambiato niente.

Allo stesso tempo, non bisogna esagerare con le lamentele. Non si deve pensare che gli artisti africani stiano lottando a gran voce per una maggiore visibilità in occidente, come affermavo già dieci anni fa. Sono convinto che la questione più importante sia più ampia: quali sono le condizioni per la nostra coesistenza in occidente? Cosa ci fanno scoprire sull’anima occidentale all’inizio del nuovo secolo?

3. Che potenzialità ha, secondo lei, l’arte africana?

Francamente, non credo che nel contesto dell’arte contemporanea sia fruttuoso parlare in continuazione di arte africana: sono sempre sicuro di cosa si intenda con questa definizione, o cosa si vorrebbe intendere. Se oggi parlassimo di arte europea con la stessa insistenza con cui parliamo di arte africana, ci sembrerebbe assurdo. Secondo me gli artisti si limitano a fare arte, e desidererebbero essere visti così, senza l’enorme fardello di un continente che alcuni di loro non conoscono nemmeno. Per quanto possiamo essere intrappolati in questo labirinto di discorso, dobbiamo renderci conto che sarebbe meglio per tutti se si tornasse al livello dell’artista e al livello di ciò con cui gli artisti si confrontano quando lavorano, a prescindere dal luogo di nascita dei loro genitori. A quel punto, con un/una artista potrà capitare di discutere del rapporto che la sua opera ha con il discorso delle origini, mentre con altri questo collegamento sarà inesistente – l’importante è non considerare tutti in branco.

4. L’identità africana significa qualcosa per un artista o un curatore, oppure è necessario adeguarsi ai parametri occidentali per sfondare sulla cosiddetta scena artistica occidentale?

È molto difficile rispondere in poche parole a questa domanda senza correre il rischio di essere fraintesi. Per una disamina più ponderata sull’argomento, rimanderei chi legge al mio testo intitolato: “Art, Identity, Boundaries” (Arte, identità, confini) [in Oguibe e Enwezor (a cura di), Reading the Contemporary, inIVA/ MIT Press, 1999], dove ne parlo piuttosto dettagliatamente.

5. In un’intervista ha dichiarato che solitamente la cultura occidentale tende a ridurre l’arte africana a un discorso etnico. Non le sembra questo, un atteggiamento di comodità, che permettere di evitare di mettere in discussione l’establishment culturale dell’occidente e quindi si impone il suo dominio?
Bollare l’arte africana come “etnica” è un modo per definirla, eliminando così qualsiasi ulteriore domanda sull’argomento. È una sorta di anestetico?!


È una questione particolarmente complicata, ma mi piace il modo in cui l’ha posta, perché contiene molta verità. Mi piace particolarmente il termine anestetico: è una parola insidiosa, che rimanda alle regole variegate, a più strati, del gioco culturale. È anche un bel gioco di parole, perché la ricerca di un’identità o il segno dell’etnicità diventano an esthetic, un’estetica, che inocula – anestetizza – l’establishment artistico occidentale contro artisti non occidentali la cui opera saprebbe sopportare i rigori dell’estetica mainstream. Per tenere a bada tali artisti si introduce una nuova categoria merceologica, cui è necessario corrispondere per essere accettati. L’alterità diventa un requisito, il prezzo da pagare. Pensi a tutti gli sforzi fatti per creare una connessione forzosa tra lo sterco di elefante di Ofili e l’Africa, quando in realtà Ofili non si rifà a un contesto africano, quanto piuttosto all’arte concettuale di David Hammons, il quale a sua volta ha subito una notevole influenza dell’arte povera. Eppure, per commercializzare Ofili è necessario sradicarlo da Manchester, Inghilterra, e collegarlo all’Africa.

Ma non è sempre così. In altre parole, la questione non si limita alle regole del mercato. Sono in ballo problemi più essenziali, che precedono il bisogno di inventare e confezionare una merce. Tra questi, un posto di rilievo è occupato dal desiderio irrefrenabile di preservare una roccaforte con mura invisibili, e di tenere alcune persone fuori dei cancelli. La roccaforte è la cosiddetta grande tradizione occidentale che ha cooptato l’arte contemporanea. Descrivere Ofili e la sua opera unicamente con i parametri dell’arte concettuale, con l’arte povera e la dirt art, significa ammetterlo pienamente e incondizionatamente negli annali dell’arte contemporanea. Eppure, per una qualche ragione che solo gli esperti possono spiegare, i custodi dell’establishment culturale (curatori, mercanti e collezionisti, direttori e critici delle riviste d’arte, direttori di musei e gallerie, storici dell’arte nelle università) sembrano avere qualche problema con questa soluzione. Tutte queste persone sentono – istintivamente, senza saperlo e senza sapere perché – che accettare questo artista pienamente e incondizionatamente nelle fila del mainstream dell’arte contemporanea (visto come un’estensione della grande tradizione occidentale) sarebbe un’anomalia. Non importa che Ofili sia nato a Manchester, in Inghilterra. Non può muoversi con la stessa libertà degli altri suoi contemporanei inglesi, o dei suoi connazionali in generale. No. Deve indossare un’etichetta. Bisogna fare qualcosa, introdurre una parola, un appellativo, che lo identifichi come un outsider. E così si forzano collegamenti idioti tra la sua arte e l’Africa, dove, stando al direttore del Brooklyn Museum (il quale è peraltro persona intelligente), lo sterco animale è oggetto di venerazione. L’etichetta è a posto e voilà! Tutti si sentono di nuovo a proprio agio.

Ciò che spaventa, è che questa logica perversa è endemica, e che giace sul fondo dell’accademia e della società nel suo complesso, avvelenando il tessuto dei giovani operatori culturali in erba. Per questo i giovani curatori e critici di Milano o New York, oggi, non sono meglio dei loro predecessori: può capitare che mostrino un lampo di illuminazione a un certo punto della carriera, ma poi ripiombano nelle consuetudini acquisite. Non cambia niente.

6. D’altro canto, lei ha affermato anche che la rivoluzione digitale sta riconfermando il potere imperialista della società occidentale, delimitando il mondo e creando enormi dislivelli tra il terzo modo e i paesi industrializzati. Ma non crede che la diffusione delle informazioni sia anche un’arma contro la tendenza ad ignorare zone del terzo mondo che sono state lasciate da parte? Le loro voci si fanno sempre più forti, e forse lei e qualche altro ne siete un esempio.

A mio modo di vedere, il fatto che io sia noto in occidente ha poco a che fare con la rivoluzione digitale o con il terzo mondo. Da più di dieci anni vivo e lavoro in occidente, sono philosophiae doctor all’Università di Londra. Il fatto che io riesca a raggiungere un pubblico, in quanto artista e filosofo in occidente, non significa che il terzo mondo abbia cessato di essere ignorato: in fin dei conti, il ruolo delle nazioni dipende dal loro reciproco potere all’interno della comunità delle nazioni, dal loro peso economico e tecnologico, piuttosto che dalla visibilità di alcuni individui, per quanto apparentemente influenti. Non dobbiamo dimenticare che il cosiddetto terzo mondo (se con ciò intendiamo gli ex paesi non allineati) è un’entità immensa, che raccoglie quasi due terzi della popolazione mondiale. Non possiamo mettere sullo stesso piano la visibilità di un pugno di pensatori e curatori africani, cinesi o sudamericani residenti in occidente e l’avvento definitivo dei paesi del terzo mondo.

Cosa ancora più importante (e chiunque conosca il mio lavoro sull’economia politica delle nuove tecnologie informatiche lo saprà già), sono convinto che nell’era digitale la vecchia dicotomia che contrappone i paesi industrializzati al cosiddetto terzo mondo non ha più molto senso. Introdussi molti anni fa il concetto di “terzi mondi digitali”, allo scopo di articolare una geografia umana più precisa della rivoluzione digitale. I fatti indicano che nella regione appalachiana degli Stati Uniti ci sono altrettanti esclusi dalla mappa digitale di quanti ne troviamo in Liberia o Ucraina. Persone che, nonostante abitino nella regione più ricca del mondo, non riescono a racimolare tre pasti completi al giorno, per non parlare dell’accesso a un computer o a un bancomat. Non sto parlando di neri dei quartieri poveri, come vorrebbe il cliché, ma piuttosto di americani bianchi, dignitosi e benintenzionati, che vivono in estrema povertà e non possono permettersi di comprare le scarpe ai figli. Allo stesso tempo, sono in molti a pensare alla rivoluzione digitale come a un fenomeno quasi esclusivamente angloamericano, mentre bisogna ricordare che due terzi delle aziende più lanciate della californiana Silicon Valley sono di proprietà di sudestasiatici, e i più potenti fornitori di venture capital della Valley sono indiani. L’India è un paese del terzo mondo, ma ha un potenziale nucleare, e la tecnologia digitale è parte integrante della tecnologia nucleare moderna. In altre parole, il divario non è tra nazioni industrializzate e cosiddetti paesi del terzo mondo, il divario è tra chi ha accesso a tutto questo e chi non ce l’ha.

7. Lei ha parlato di nuovi confini. Cosa intende? Che effetti avrebbero tali nuovi confini su di noi?

Secondo me, chiunque è privo di accesso alle potentissime nuove tecnologie informatiche, nell’era digitale è una specie in via di estinzione. Attualmente il meccanismo di sorveglianza degli Stati Uniti e dei loro alleati può, grazie a queste tecnologie, rintracciare qualsiasi oggetto di rilievo (compreso qualunque essere umano) sulla faccia della terra. Questo è potere, e questa è vulnerabilità. In altre parole, chi non sa niente di queste tecnologie e non ha modo di sfruttarle, si trova alla mercé di coloro che invece le padroneggiano. Gli Stati Uniti avranno anche pasticciato indegnamente le loro ultime campagne militari in giro per il mondo, ma questo deriva più che altro dalla intrinseca incompetenza del loro personale militare e dalla totale assenza di moralità nelle missioni. Nell’era digitale, la verità è che esiste la tecnologia in grado di cambiare per sempre la natura del confronto/scontro umano, e chi non ha gli strumenti per lottare alla pari è completamente alle mercé di chi li ha. La razza umana ha su di sé un enorme fardello morale, e la storia ci insegna che l’umanità non è una razza morale.

Quello che mi preoccupa non è tanto l’enorme potenziale di distruzione violenta insito in questa forza immensa, quanto l’immane golfo di alienazione e disparità che sta nascendo tra “chi ha gli strumenti” e chi non li ha. È questo il nuovo confine: la linea che separa i “digitalmente equipaggiati” dai “digitalmente indigenti”. Tale alienazione produce enormi conseguenze culturali, alcune delle quali da me analizzate in Connectivity, and The Fate of The Unconnected. Fintantoché la ricchezza delle nazioni e la complessa rete del capitale culturale odierno saranno inestricabilmente legate alla tecnologia digitale, si potrà approfittare di chiunque è rimasto indietro a causa della scarsa conoscenza dell’infrastruttura. Ed è molto pericoloso che gli altri approfittino di noi, significa essere condannati. Incombe su di noi uno spettro pauroso perché, come scrisse Gabriel Garcia Marquez alla fine di Cent’anni di solitudine nel 1967, “alle razze condannate a cent’anni di solitudine non [è] data una seconda possibilità.”

Uno spiraglio tuttavia c’è, ed è la parità. Bisogna rendere le tecnologie del potere disponibili a tutti, così che le persone non usufruiscano solo dei vantaggi derivanti da tali tecnologie, ma abbiano anche il potere di tenerne a bada gli aspetti negativi. Quando siamo uguali, abbiamo maggiore rispetto l’uno per l’altro.




Irwin

“L’azione di Brener ha consapevolmente e deliberatamente messo il dito su una piaga molto profonda e seria della contemporanea storia politica europea, causata dalla rivoluzione proletaria, dal comunismo, dal fascismo, dal nazismo, dalla Guerra Fredda e dal caotico processo di creazione di un nuovo ordine mondiale sotto l’egida del capitalismo globale. In effetti, l’arte contemporanea – modernista e d’avanguardia – ha rappresentato l’unico sistema di valori in contrasto con le grette e aggressive divisioni sociali e politiche del passato, le quali erano in lotta per la supremazia e per la globalizzazione delle proprie ideologie. Solo l’arte contemporanea ha saputo dare vita a un sistema di valori e a un linguaggio per l’integrità individuale che fosse allargato a tutta la cultura europea a prescindere dai confini politici e sociali. Durante la Guerra Fredda il linguaggio autonomo e indipendente delle prime avanguardie artistiche divenne il sistema di valori ufficiale delle democrazie occidentali, e quindi una delle ideologie più raffinate che siano mai esistite. La fine della Guerra Fredda portò alla luce molti problemi e conflitti irrisolti e, tra le altre cose, sollevò la questione delle radici storiche della supremazia economica occidentale, la quale svolge un ruolo importantissimo nell’aggiungere valore di mercato ai valori simbolici della civiltà globalizzata.
La strategia dominante è stata quella di conservare la supremazia culturale e simbolica per mezzo della supremazia economica, come è illustrato da moltissimi esempi che vanno dalle appropriazioni dubbie ma probabilmente legali di tesori archeologici appartenenti alle antiche civiltà (diciamo probabilmente legali per via della sfuggente definizione dell’autentico valore di mercato di un oggetto culturale) fino all’incerta identità materiale della collezione Malević, rimasta in Europa occidentale dopo la mostra di Berlino del 1927. È vero che il capitalismo globale è un nuovo modo per definire la colonizzazione culturale da parte del mondo occidentale nei confronti del resto del pianeta?”
Dalla Lettera di Solidarietà di Eda Čufer, Goran Đorđević, IRWIN, febbraio 1997

“Tutti i paesi dell’est rimasero isolati dal resto del mondo. In mancanza di scambi internazionali si svilupparono standard locali […] Il multiculturalismo divenne un’ideologia ufficiale, che sfruttava l’arte per controllare le zone circostanti. L’arte multiculturale divenne un modo per costruire la pace nelle zone di conflitto. È una necessità ufficiale, ed è importante chiedersi di chi sono le necessità cui assolve. Gli artisti non sono poliziotti o assistenti sociali, ma trovo che ci siano interessanti punti in comune: non appena viene “resa funzionale”, l’arte si trasforma in ciò che il socialismo reale fu nei primi stadi del comunismo. In un sistema liberale il multiculturalismo può facilmente trasformarsi in una specie di socialismo reale liberale.”
Miran Mohor

“La scena artistica occidentale si comporta alla stregua di entità puramente politiche, come la Comunità Europea. I soli artisti o paesi ammessi sono quelli che non introdurranno elementi di instabilità all’interno del sistema. La sola differenza sta nel fatto che la strategia della Comunità Europea è consapevolmente ed apertamente politica, mentre quella del mondo dell’arte non lo è.”
Miran Mohor

“Gli artisti dell’est europeo vengono presentati sulla scena artistica occidentale in tre modi. In primo luogo ci sono i dissidenti – artisti fuggiti dall’est per scampare alla repressione della loro individualità. I dissidenti hanno un significato politico e ideologico molto preciso in occidente, poiché l’idea della loro persecuzione diviene uno strumento ideologico a sostegno della democrazia occidentale.
Poi ci sono artisti come Marina Abramović e Braco Dimitrijević, i quali sono emigrati per ragioni pratiche, preferendo abbandonare paesi economicamente e culturalmente meno sviluppati per spostarsi al centro. Lavorano in occidente e sono integrati nella società occidentale, si sono lasciati alle spalle le condizioni sociali ed economiche dei paesi d’origine.
Noi [Irwin] abbiamo assunto una terza posizione: viviamo a casa, ma partecipiamo ugualmente alla scena artistica occidentale. Non si è trattato di una decisione ideologica, ma di una scelta di comodo che sarebbe stata irrealizzabile sotto il socialismo. Questa situazione è una novità degli anni Novanta, e vorrei sottolineare la differenza che separa la nostra posizione da quella di artisti russi, ex-iugoslavi o provenienti da altri paesi dell’Europa orientale che vivono all’estero: è un punto importante della nostra discussione, perché ci sono sempre più artisti che vivono nell’est ma partecipano alle attività internazionali.”

Dušan Mandič
(citazioni tratte da Transnacionala: highway collisions between East and West at the crossroads of art. A project by Irwin, Alexander Brener, Vadim Fishkin, Yuri Leiderman, Michael Benson and Eda Čufer, Ljubljana 1999.)





Jordan Crandall

“Credo sia giunto il momento di capire che le forze della globalizzazione vanno pensate sempre in un’ottica dinamica rispetto alle forze della localizzazione. In nessun momento esistono solo le prime o solo le seconde, ma una sorta di oscillazione tra le due. La comprensione di tale dinamica può avvenire nei contesti più svariati – culturale, economico, militaristico… Le pratiche artistiche e culturali possono condurre una specie di traffico illecito attraverso i confini, guidando spedizioni avventurose di scoperta nel regno del simbolico.”
Jordan Crandall, www.blast.org/crandall




Eda Cufer


“La globalizzazione è un concetto, che in una parola descrive un numero elevato di fenomeni e diventa così uno di quei concetti vacui con i quali possiamo definire tutto e niente. Una specie di “segno vuoto”, che ciò nonostante mobilita la nostra immaginazione. Viviamo la globalizzazione come una “condizione”. Tutti sappiamo, di essere al centro di un ampio e fatale processo di trasformazione, che muta la nostra posizione ed i valori, con i quali fino ad ora cercavamo di comprendere e spiegare il mondo. Questa “condizione”si manifesta come qualche cosa che sostituisce tutte le vecchie polarità, costringendoci a fatti ed interpretazioni estreme. Dobbiamo decidere se abbandonarci completamente al nuovo e all’ignoto, oppure opporci per una violenta difesa dei vecchi valori e concetti. Nonostante le numerose teorie e previsioni, i filosofi e i pensatori famosi, gli artisti e la stessa “gente” comune, si esprime su “questa condizione” con parole molto semplici, in maniera ingenua. Ogni diichiarazione sulla globalizzazione necessita di una buona dose di coraggio e di creatività, poiché la conoscenza di questo fenomeno non è stata ancora canonizzata. Si tratta di un momento molto stimolante per l’arte. In rapporto alla globalizzazione tutti noi siamo artisti.”




Nataša Petrešin

“La contraddizione dinamica, prosecuzione dei pluralistici valori postmodernisti attraverso l’epoca contemporanea, è presente su tutti i piani dell’esistenza umana. La sovrapposizione di leggi, definite come globali e che agiscono come delle estensioni dei centri di potere, e i contesti locali, che ancora una volta si trovano in una posizione di inferiorità, danno vita ad un paesaggio mentale e fisico di un fenomeno alla moda denominato glocalizzazione. Le reazioni a questa utopica sottocorrente sembrano rappresentare il globale “culture jamming” delle precedenti zone periferiche, le quali sono fisicamente ancora lontane, con la decentralizzazione virtuale, fondamentale nel direzionare la corrente principale – la globalizzazione. La conseguente formazione di forti coscienze ed infrastrutture locali, gli ormai dimenticati valori dell’origine ed il ruolo dell’individuo sono alcuni elementi, che si oppongono con successo all’unificazione globale. Però, l’unificazione globale si manifesta anche nello spazio virtuale. Secondo le teorie antropologiche sulla crescente frequenza dell’interconnessione individuale fa si che queste si siano attuate anche nel meccanismo interreticolare. Il mondo non è stato ancora mai così concentrato, e la sua unità di misura è parallela al flusso delle informazioni. La domanda resta, che cosa succederà dopo il totale ridimensionamento dell’economia globale e del capitale al monopolio dell’informazione.”




“La globalizzazione è…” di Mark Amerika

Globalizzazione è il nome in codice per “il flusso nomadico del capitalismo aziendale multinazionale.”

Globalizzazione significa rubarmi a me stesso e poi, dopo pesanti manipolazioni, rivendermi a me stesso.

Globalizzazione è trasformare questo “io manipolato” in un rhizo-flusso collettivo.

Globalizzazione è un’esperienza religiosa condivisa da una comunità operante grazie a Internet e composta di “io manipolati” i quali, in fin dei conti, venerano il Dio del Denaro-Spazzatura (e amano trasformare questa “funzione religiosa” in una specie di forma di [net] arte).

Globalizzazione è la risposta alle nostre preghiere, un modo di vedere il mondo, un’apertura imprevista, una puttana lui-lei di forma cangiante che ci permette di lasciare la nostra soggettività virtuale in ogni porto, lasciandoci alle spalle una scia di e-mozioni voluminose e gocciolanti.

La globalizzazione fa venire l’acquolina in bocca, stimola l’appetito, infonde odore di muschio alla biancheria intima e rende succulenta la purezza.

Globalizzazione è faux-realtà che si atteggia a Prossima Realtà Innegabile ed espelle menti perse nel (cyber) spazio.

Globalizzazione è mangiare queste menti secrete con un cucchiaio d’argento e tramandarle alla generazione seguente (il ciclo della “povertà intellettuale”).

Globalizzazione è un campo da gioco deregolamentato in cui tutti, soprattutto gli artisti, utilizzano tecniche di marketing altamente sovversive per attirare l’attenzione sul fatto che stanno ricavando degli utili dalla loro presenza narratologica (dalle loro storie di vita metanarrative).

Globalizzazione è un modo di impiegare l’attenzione generata da una presenza narratologica (iperbole mitologica) per entrare con cautela in una confortevole mezza età.

Globalizzazione è una droga che trasforma l’attenzione dei media nel virus di se stessa o in un même culturale, uno strumento per la creazione di false identità collegabili a particolari marchi di fabbrica che non fanno che aumentarne il valore di rete.

Globalizzazione è alterare il concetto di arte per includervi l’opera di sconosciuti quali Amerika, Bey, Blissett, Cosic, I.O.D., jodi, Mongrel, RTMARK e ZigZelder.

Globalizzazione è un uccello esotico a cui nessuno sa resistere e con cui tutti vogliono fare l’amore.”




Viktor Misiano
Il mio “globale” comodo e accogliente


1. La caratteristica positiva della globalizzazione è che nella ricerca del Centro non si è più costretti a rompere il legame con il proprio luogo di appartenenza. Non si deve più “partire per Parigi” o “partire per New York” come un tempo. Grazie alle nuove possibilità tecnologiche e sociali si può essere Globali a casa propria – a Mosca o a Ljubljana.

2. Allo stesso tempo, l’essere “globali” o “centrali” a casa propria – a Mosca o a Ljubljana – permette di sfuggire alle insidie locali o provinciali (per dirla con un termine un po’ antiquato) rappresentate da limitatezza, dogmatismo, invidie e intrighi personali. L’appartenenza alla sfera Globale ti protegge, il Globale ti regala distacco e indipendenza.

3. Più ti avvicini al Globale e te ne impratichisci, più scopri che la struttura del Globale non è diversa da ciò che è Locale. Tale struttura è rappresentata da una cerchia ristretta di persone, entro la quale ritrovi la limitatezza, il dogmatismo, le invidie e gli intrighi personali. In questo caso, l’appartenenza al Locale – a Mosca o a Ljubljana – ti protegge, regalandoti distacco e indipendenza.

4. Stare in equilibrio tra Globale e Locale significa avere l’opportunità di costruirsi un’identità propria, di trovare la propria strada. Ancora di più – ed è questa la cosa più importante – offre la possibilità di stabilire un sistema confidenziale di collegamenti transnazionali, il quale è il punto di riferimento e la destinazione finale della tua attività. Anzi, è il tuo Globale localizzato o il tuo Locale globalizzato.

Mosca, 25 marzo 2001

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